Hannah arendt 
di Julia Kristeva

 
Hanna Arendt

Approfitto del fatto che oggi vi posto questa bella intervista a Julia Kristeva per postarvi e segnalarvi anche altre cose su Hannah Arendt che avevo via via letto e salvato per metterle nel blog (georgia)

Il genio delle donne

Intervista a Julia Kristeva "Il mio libro sulla Arendt"

Fabio Gambaro 

"Il genio femminile nasce da un´individualità che supera di continuo se stessa, ma restando capace di condividere la propria esperienza con gli altri". Psicanalista, semiologa, studiosa di letteratura, Julia Kristeva è conosciuta in Italia per i suoi numerosi saggi - da La rivoluzione del linguaggio poetico a Le nuove malattie dell´anima - ma anche per i due romanzi Samurai e Una donna decapitata. A questi titoli si è aggiunta ultimamente un´appassionante trilogia dedicata al "genio femminile", in cui ha analizzato l´opera e le personalità di Hannah Arendt, Melanie Klein e Colette.
L´editore Donzelli, dopo aver tradotto il volume Colette. Vita di una donna, ha da poco mandato in libreria quello dedicato alla filosofa scomparsa nel 1975: Hannah Arendt. La vita, le parole (pagg. 396, euro 23), opera che ha ricevuto il premio "Amelia Rosselli 2006" per la creatività femminile. In occasione del Premio, Julia Kristeva martedì 21 marzo sarà a Roma per un incontro a lei dedicato, cui interverranno tra gli altri Nadia Fusini, Federica Giardini, Pietro Montani, Elisabetta Rasy e Mariella Gramaglia (Sala Santa Rita del Comune, ore 17.30).
Per Kristeva, la trilogia sul genio femminile rappresenta l´approdo naturale di un lungo percorso intellettuale e politico: "Ho partecipato alla terza stagione del femminismo, quella venuta dopo le suffragette e gli anni di Simone de Beauvoir. Era il periodo che ha fatto seguito al Sessantotto, quando il movimento delle donne era focalizzato soprattutto sulla rivendicazione della differenza femminile", spiega la studiosa nella sua bella casa di Parigi, proprio di fronte ai giardini del Lussemburgo. "Per via di questa passata militanza, mi è stato spesso chiesto di scrivere un libro sulle donne o sul femminismo. Io però, sebbene mi sia spesso occupata di scrittrici, ad esempio Marguerite Duras, o di questioni relative alla psicanalisi delle donne, non ho mai voluto lanciarmi in un´opera globale sulla questione femminile. Anche perché, oggi, una divergenza profonda mi separa dal movimento femminista".

Quale?
"Tutti i movimenti profetici nati dopo la crisi delle religioni, si sono illusi di realizzare il paradiso in terra, ponendosi in un´ottica collettiva. Anche le femministe. Ma volendo liberare un gruppo umano nella sua totalità, si finisce per ignorare la libertà individuale. Come già le rivoluzioni passate, anche il movimento femminista ha dimenticato che la libertà si declina sempre al singolare. Per me è una questione essenziale. Non a caso, mi sento molto vicina alla lezione di Duns Scoto, il monaco filosofo del medioevo, per il quale verità e libertà sono sempre figlie della singolarità. Occorre sempre rispettare la specificità, i desideri e la creatività d´ogni individuo. Anche il femminismo deve tenere conto della singolarità, altrimenti rischia di degenerare in un altro totalitarismo. Ecco perché, più che parlare delle donne in generale, ho preferito ricordare il genio di alcune grandi personalità, genio che nasce da una singolarità capace sempre di superarsi".

Da qui la scelta di Hannah Arendt, Melanie Klein e Colette?
"Dato che mi sono sempre occupata di filosofia, psicanalisi e letteratura, ho scelto queste tre donne per parlare della vita, della follia e delle parole. In loro non v´è nulla dell´eccezionalità del genio romantico. Eppure, di fronte alle difficoltà della loro esistenza, hanno saputo dare il meglio di se stesse, superandosi e fecondando felicemente la cultura del XX secolo. Sono l´illustrazione perfetta del genio femminile".

Hannah Arendt però sembrava non credere all´idea del genio...
"È vero. Ricordava che l´immagine del genio è nata nel Rinascimento, quando l´idea del divino, dopo aver conosciuto una crisi profonda, torna a manifestarsi nelle sembianze del genio umano che libera l´uomo dalla banalità e dalla noia. È l´idea dell´artista eccezionale che poi dominerà la cultura romantica. Il genio a cui penso io, però, ha caratteristiche molto diverse. Le tre personalità che ho scelto, infatti, non hanno nulla d´eccezionale e sono capaci di parlare a tutte le donne. Partendo sempre dalla loro difficile quotidianità, sono riuscite a creare un´opera lontanissima dall´ordinario, elaborando una riflessione straordinariamente innovativa. Al contempo, in loro non cessa mai la preoccupazione del legame con gli altri. Nel genio femminile, infatti, si esprime sempre un sentimento del sociale, unito alla necessita di rinnovarlo di continuo. La coscienza della differenza non si traduce mai in solitudine. Hannah Arendt, evitando di barricarsi nella propria esperienza d´esclusione e d´esilio, ha cercato di costruire un´opera condivisibile".

Quali sono le altre caratteristiche del genio femminile?
"Nel genio femminile il pensiero non è mai separato dal corpo. Gli uomini tendono a rinchiudersi nei palazzi ossessivi del pensiero puro, dimenticando il dato dell´esperienza corporea. Hannah Arendt parlava non a caso della triste tribù dei filosofi. Per lei, invece, pensare è l´unica forma di felicità, proprio perché la sua riflessione è sempre legata a qualcosa di concreto. Per lei, il pensiero è indissociabile dal corpo e dall´esperienza con gli altri".

Il tema del corpo femminile richiama inevitabilmente la questione della maternità...
"Per l´autrice delle Origini del totalitarismo, la libertà non è opporsi a una norma, perché la contestazione è sempre determinata da ciò a cui ci si oppone. La vera libertà nasce nella capacità d´iniziativa, è radicata nella possibilità di cominciare e ricominciare sempre. E il fondamento ontologico di tale libertà risiede nella nascita. È proprio perché nasciamo effimeri, mortali e differenti che siamo liberi. Tramite la maternità, il corpo femminile diventa una condizione della libertà. Tale riflessione andrebbe ricordata a quelle femministe che in passato hanno considerato la maternità solo come un aspetto della sottomissione al potere maschile".

Del pensiero di Hannah Arendt, più che le tematiche politiche, lei ha sottolineato quelle legate alla vita umana. Perché?
"Ho cercato di restituire un percorso intellettuale in tutta la sua complessità. Le riflessioni politiche di Hannah Arendt sul totalitarismo e l´antisemitismo non possono essere separate dalla riflessione filosofico-antropologica sulla condizione umana. La denuncia dei due totalitarismi nazista e comunista si basa su considerazioni etiche che nascono dalla comprensione del senso della vita umana. Da qui l´idea che la vita degli uomini sia sempre un´azione politica".

Questa riflessione sulla vita umana è ancora d´attualità?

"Penso di sì, anche perché alla fine degli anni Sessanta, la pensatrice tedesca denuncia l´automatizzazione della specie e i rischi di una società ipertecnocratica dominata da un´élite che finisce per escludere dal benessere gran parte dell´umanità. Hannah Arendt mette in guardia contro l´automatizzazione della specie che prepara nuove forme di totalitarismo. Un monito più che mai attuale".

Il lavoro del pensiero rappresenta un antidoto alla negazione dell´umanità?
"Certo. Nella sua riflessione, l´autrice della Vita activa non valorizza il pensiero che calcola, ma il pensiero che s´interroga. Oggi abbiamo schematicamente due modelli: il pensiero del calcolo che ci aiuta ad adattarci alla realtà e quello che si pone sempre nuovi interrogativi, per non sottomettersi alla dittatura del reale, per sviluppare la libertà degli individui e creare nuove relazioni. Noi non abbiamo bisogno di adattarci, ma d´innovare. In questa prospettiva, la lezione da Hannah Arendt può essere fondamentale. Il suo genio è la migliore espressione dello spirito europeo caratterizzato da un pensiero che non rinuncia mai a interrogarsi".
La repubblica, 20 marzo 2006, p 43 leggibile in Libreria delle donne


Con lo sguardo dell'inizio


Pubblicata da Donzelli «Hannah Arendt. La vita, le parole», la biografia della filosofa tedesca che, insieme a quelle della scrittrice Colette e della psicoanalista Melanie Klein, compone il trittico dedicato da Julia Kristeva al «genio femminile».
Simona Forti

A tutta prima, sembra un'inedita Kristeva l'autrice di Hannah Arendt. La vita, le parole. (Il volume, uscito per le edizioni Fayard nel `99 e ora tradotto da Donzelli - pp. VI-296, € 23, traduzione di Monica Guerra -, è parte di una trilogia intitolata «Il genio femminile», dedicata ad Hannah Arendt, Melanie Klein e Colette). Insolito, infatti, è il tocco leggero e chiaro della scrittura con cui l'intellettuale di origine bulgara e di cultura francese dipana il racconto biografico. Ironico e paradossale può apparire l'intento del libro: esporre il pensiero di Hannah Arendt - così esplicitamente avverso alla psicoanalisi - a una sorta di sguardo «analitico». Il risultato, per quanto teoreticamente discutibile, è comunque molto interessante. Credo, infatti, che sebbene vogliano tenersene lontano, le opere arendtiane si prestino più di quanto si possa credere a questo tipo di lettura. Il messaggio che Kristeva tacitamente invia ai suoi lettori richiama innanzitutto l'esemplarità dell'esistenza di Hannah Arendt: una vita femminile che riesce a rendere «produttivi» i paradossi del secolo che attraversa. E il gioco di specchi tra la vita di chi racconta e la vita raccontata, che senza dubbio trapela tra le righe, riesce a tenersi distante da ogni fastidioso narcisismo. Con grande finezza vengono ritratti tutti i segni della «differenza» arendtiana: il suo essere una donna, costantemente immersa in ambienti quasi esclusivamente maschili; il suo essere ebrea, ma non praticante e non sionista, studiosa appassionata di teologia cristiana e filosofia tedesca.
Per Kristeva, insomma, tutto nella vita di Hammah Arendt, dalle opere alle scelte personali, parla dal punto prospettico di un'irriducibile estraneità. Non soltanto gioca un ruolo centrale l'esilio, che la vede a Parigi negli anni Trenta e poi a New York dal 1940. Ogni episodio della sua esistenza, persino i lineamenti somatici così precocemente invecchiati, reca tracce di una lotta, la lotta tipica di chi è costretto a strapparsi da ciò che è familiare: luoghi, abitudini, lingua.
Ecco allora che la differenza tra il semiotico e il simbolico - nucleo teorico della riflessione kristeviana - trova nel dedalo dei segni offerti dall'«universo-Arendt» una possibilità d'applicazione particolarmente promettente. Questo fa del testo non un volume di semplice «esegesi» arendtiana, che si aggiungerebbe a una produzione ormai sterminata, ma un godibile esempio di come possono interagire tra loro, in maniera intelligente e misurata, narrazione e psicoanalisi, analisi testuale e critica filosofica. Alla fine, Julia Kristeva riesce davvero a trasformare la biografia di Hannah Arendt nella testimonianza di un percorso tortuoso, sofferto, contraddittorio quanto si vuole, ma «riuscito», in quanto capace di rispondere alla chiamata del proprio daimon. Il «demone» arendtiano chiedeva già tirannicamente alla giovane ebrea di cultura tedesca di spendere l'esistenza nella ricerca del senso, nell'interminabile inseguimento di una verità: la radicale finitezza del mondo umano intessuta da una pluralità irriducibile.
In controtendenza rispetto a tante recenti interpretazioni «iperpolitiche» della filosofia arendtiana, l'autrice francese ritiene che l'interrogativo che assorbe, affatica e appassiona Hannah Arendt - dalla tesi di dottorato su Agostino a La vita della mente - sia in fondo uno solo: che cos'è diventata la vita umana; che cosa resta di essa dopo il crollo dei sistemi di riferimento normativi? Se ancora la vita ci appare il «bene ultimo», come pensarla a partire dal fatto incontrovertibile che ciò che ha accomunato e accomuna tutti gli «animali totalitari» - quelli del passato e quelli latenti - è esattamente la pulsione a renderla superflua e a distruggerla nella sua singolarità? Sarebbe infatti questa la minaccia a fronte della quale The Human Condition, l'opera del `58, intona un inno all'unicità della vita spesa nell'azione e nella narrazione (bios), di contro a una vita biologicamente riproducubile (zoe). E' la disperazione prodotta dalla storia del secolo, a far scommettere Hannah Arendt su un agire politico pensato come espressione e prolungamento del «miracolo della natalità». «Donna senza figli - ci dice Julia Kristeva - la Arendt ci lascia in eredità una versione moderna (e secolarizzata?) del legame giudaico-cristiano con l'amore per la vita, attraverso il suo canto reiterato del `miracolo della nascita', dove si coniugano la casualità dell'inizio e la libertà degli uomini di amarsi, pensare e giudicare». E' perché ci sono nascite - frutto della libertà di donne e di uomini, prima che prodotti delle combinazioni genetiche - che esiste la possibilità di essere liberi. La nostra libertà, infatti, - commenta Kristeva - non è soltanto una costruzione psichica, è la conseguenza dell'inizio come esperienza della rinnovabilità del senso.
Proseguendo in modo assai eterodosso il discorso arendtiano - in questo caso portandolo al limite del tradimento - l'autrice francese ribadisce qui la propria visione dello psichismo materno come luogo di passaggio dalla zoe al bios. Più in generale, presenta il legame con la madre - o meglio, l'incontro primario col femminile - come radice, nel singolo, della possibilità di «amore per il qualunque», condizione, in ognuno, dell'apertura verso il prossimo, verso la sua stessa fragilità. E questo varrà, conclude Kristeva, almeno fino a quando la tecnica non avrà eliminato, oltre alla novità della nascita, anche la minaccia della morte. Fino ad allora, l'unico modo per la vita umana di trascendere la propria «naturalità» sarà riposto nell'immortalità della narrazione, o nella possibilità istantanea, da parte della vita singolare, di essere «riconosciuta» dal gioco plurale delle parole e degli sguardi altrui.
Proprio sull'«enigmatica essenza» del chi arendtiano si concentrano le pagine più belle e penetranti del libro. Altamente problematica appare a Kristeva la sottovalutazione dell'espressività del corpo e della psiche nella «rivelazione» dell'identità del singolo che agisce. Per eccesso di coerenza con gli assunti della filosofia heideggeriana, Hannah Arendt si precluderebbe così la strada per una compiuta decostruzione della soggettività metafisica. Come sostenere, infatti, che la psiche è abitata in ognuno dalle stesse e identiche pulsioni? Come ignorare che anche a livello del Dna il corpo biologico è altissimamente individualizzato? Certo rifiutarsi di riconoscere la singolarità della psiche e del corpo è un gesto intenzionalmente provocatorio, la cui forza dovrebbe servire a marcare la differenza tra un soggetto che può essere tale solo se e quando agisce in mezzo agli altri e un individuo che diviene inevitabilmente un oggetto ogni volta che è preso nella rete delle funzioni sociali e dei determinismi biologici.
La nettezza di questa separazione sembra attenuarsi nell'ultima opera di Hannah Arendt, La vita della mente. La parte dedicata al Pensare, soprattutto, riuscirebbe a ridare al processo del pensiero il carattere di un'esperienza incarnata e sensibile. Tuttavia una nuova insidia teorica si ripresenta nella sezione su Volere. E' chiara, e per Kristeva anche condivisibile, la scelta nietzscheana della filosofa di contrastare una volontà, che in virtù del senso di impotenza verso il passato, si trasforma in risentimento, a sua volta foriero di appetito di vendetta e sete di dominio. Se, per sospendere l'accanimento contro il tempo, la risposta di Nietzsche è l'oblio, quella arendtiana è il perdono. Tuttavia, come è possibile per «qualcuno» perdonare, se si trova privato della sua interiorità psichica? E' ancora una volta il medesimo desiderio arendtiano di negare la profondità della psiche a rilanciare una libertà del tutto svincolata dalla volontà e abbandonata alla dinamica plurale dell'«io posso». Ma, si chiede polemicamente Julia Kristeva, il potere politico, quand'anche separato dal dominio, può davvero fare a meno dell'intenzionalità della volontà? Nella sua ricerca di un fondamento non soggettivistico della politica - polemico tanto nei confronti del marxismo quanto dell'esistenzialismo francese - Hannah Arendt non solo non risolve, ma nemmeno affronta queste aporie.
Secondo l'autrice francese, auspicare il perdono al posto della vendetta risentita, puntare sul legame della promessa invece che sul controllo del dominio, significa lasciar emergere, filosoficamente, le risonanze cristiane della formazione giovanile. E insieme a questa eredità, mai esplicitamente ammessa da Arendt, verrebbe alla luce la negazione - in senso propriamente analitico - su cui regge l'intero edificio arendtiano. Hannah Arendt avrebbe avuto bisogno, per continuare a vivere, ad agire e a pensare, di «attaccarsi» alla possibilità che da qualche parte - al di là forse delle singole persone concrete - e in qualche modo - al di fuori delle parentesi totalitarie - il «senso comune» rimanga «sano». Era questa già la tesi di Lyotard che Kristeva sviluppa rintracciandone i segni palesi. «Non è la lingua tedesca che è impazzita!»; perché Hannah Arendt ripete così spesso e ansiosamente questa affermazione? Come ad esempio nella bellissima intervista con Gaus (confronta Archivio Arendt 2. Feltrinelli, 2003). Perché, per quanto abbia genialmente ripensato alla vita come alla possibilità del miracolo dell'inizio, Hannah Arendt non è riuscita ad ammettere fino in fondo che in ogni cosa - sia essa la lingua, l'umanità, la madre, il padre, ogni singolo, persino l'essere - è racchiusa la sua possibilità di non essere. Resta, tuttavia, l'unica filosofa, non a caso una donna, che ci ha offerto un pensiero dell'inizio come possibilità per ciascuno di rilanciare la questione del senso della propria vita.
Il Manifesto, 14 febbraio 2006, leggibile
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NOTE
1) Hannah Arendt, Che cosa resta? Resta la lingua. Una conversazione con Gunther Gaus in Archivio Arendt,1.1930-1948, a cura di Simona Forti, Milano, Feltrinelli, 2001. In
La domenica della nonviolenza, 40, Centro di ricerca per la pace,  al paragrafo 8, si può leggere parte dell'intervista: Maestre. Alcuni estratti da un'intervista di Guenter Gaus a Hannah Arendt del 1964.

2) Segnalo anche Julia Kristeva, Quel viaggio nel totalitarismo, La repubblica, 2 dicembre 2005 p. 43 leggibile QUI in formato pdf e segnalato da Azioneparallela.
3) e poi segnalo  Valeria Andò, La Physis ama nascondersi: La lettura arendtiana di Eraclito, nel sito dell'Universita' di Palermo. Il testo è stato segnalato e postato da claudio tullii in Materiali resistenti