no logo -recensione
Sono le più grandi ditte del mondo. Ma non
vendono, comprano. Non si abbassano a vendere prodotti. Comprano anime,
menti, sogni, meglio sarebbe dire "acquisiscono perché non pagano
certo, anzi ricevono: soldi e, se l'operazione è proprio ben riuscita
gratitudine. Perché quel che danno in cambio è il loro logo, il loro nome, la
loro marca da applicarsi su quell'anima, quella mente quei sogni: comprando un
paio di scarpe, un. maglietta, un computer, un hamburger, un bambola in realtà
oggi si entra nel mondo Nike, Benetton, Microsoft, McDonald's, Barbie...
Un mondo, caso per caso, di libertà, di vita tutto sport, di trasgressione e
d'uguaglianza, di gesti temerari. Tutto questo senza fare assolutamente niente.
Se non, per l'appunto, comprare e indossare o comprare consumare. Però, che
vita! -Una vita di marca! No logo (che significa "niente marche,
basta con le etichette"), il libro della giornalista trentenne Naomi Kleih,
già famoso prima di approdare da noi, racconta e contesta tutto questo.
Racconta come il vero "prodotto" per cui si dannano e su cui super
investono le grandi corporation a tutto pianeta sia ormai solo il
marchio, non più abbinato a cose ma insufflato di idee, di fede, di stili di
vita. Il banale, concreto prodotto, quello che si tocca e si paga, verrà dopo.
Pura, inevitabile conseguenza.
l cambiamento si data anni Novanta; L'ossessione della griffe
è nata a metà dei futili e yuppeschi anni Ottanta, presto le ditte
capiscono che per vendere basta investire nel logo. Non basta la pubblicità, ci
vuole il
branding. Che è qualcosa di più. E' dare un'anima al marchio.
E' farne un virus che penetra ovunque, tutto contamina, tutto assorbe,
confondendosi con la realtà, con la cultura, con l'immaginario collettivo fino
a sopraffarli. L'ideale lo esplicita David Hill, amministratore delegato della
Fox Boadcasting: "Vogliamo portare lo stile di vita Fox Sports fuori dalla
tv e addosso alla gente, creando una nazione di cartelloni pubblicitari che
camminano". Un ideale davvero speciale. Che si sposa con l'ormai noto e
ripugnante progetto della Pepsi di proiettare il proprio marchio sulla Luna. Non
l'ha fatto (finora!), in compenso ci sono gli adesivi sulle mele per
reclamizzare programmi tv, i promo dei film di Batman proiettati sul cielo
notturno (addio sublime cielo stellato , di Kant!), la Barbie che ha dipinto
completamente di rosa un intero quartiere, alberi, auto e cani compresi (le
persone pare di no), per una propria festa televisiva.
La lista messa insieme dalla Klein in quattro anni di lavoro è
lunga, documentata e sgomentevole. L'assedio, incalzante. I consumatori, dice
apertamente un altro "idealista" del 'randing, David Lubars,
della Omnicom. Group,"sono come gli scarafaggi: dopo un po il solito
insetticida non basta più, li devi spruzzare con roba più forte". Devono
averla pensata così a Milano: senza chiedere il permesso ai milanesi né come
cittadini né come utenti che pagano il servizio, nel metrò sono comparse
macchine che proiettano spot su spot. Gli "scarafaggi" bloccati nel
sottosuolo in attesa, dei treno sono costretti a vederli e ad ascoltarli. E se,
alcuni, convinti di esagerare, protestavano: "tra un po' ci spruzzeranno
anche di odori per meglio convincerci", ora si può rispondere: già fatto.
Calvin Klein ha applicato strisce del suo profumo sul retro di biglietti per
concerti, la Gordon's Gin assieme agli spot ha inondato di aroma di bacche di
ginepro le sale cinematografiche inglesi.
Assedio, assedio... è questo che si percepisce da ogni pagina
del libro, prova su prova. Colonizzazione del pensare comune, colonizzazione
della cultura, ma le pagine più tremende - e di cui meno si è parlato -
riguardano la colonizzazione della scuola. "C'éro, quando è
cominciata", di dice ora la Klein al telefono. "Fu heartbreaking, un
colpo al cuore. E' da lì che mi è venuta l'idea del libro".
sull'apprendimento infantile al Mit, Cattedra Kmart di marketing alla
L'idea di ribellarsi, di fermarli. "Perché la scuola è
l'unico posto dove, da giovani veniamo allenati a una mentalità non da
consumatori. In un decennio, invece, sono state pressoché eliminate le barriere
tra pubblicità e istruzione". E racconta, nel libro -, non solo di mense
scolastiche McDonald's o Burger King, ma di sponsorizzazioni sempre più
cannibalizzanti: il ragazzo sospeso dalla preside perché si mette la T-shirt
della Pepsi il giorno della "Festa Coca-Cola" nel suo liceo
sponsorizzato in Georgia, o le 800 classi delle elementari impegnate nell’esercitazione
di ricostruire la scarpa da ginnastica Nike fornita a pezzi (firmati). E che
sarà mai un annuncio in più per un ragazzo che ne sente tanti! ",
riferisce la Klein che dicono i soliti alcuni, e par di sentirli. Niente basta
mai ad allarmarli. Neanche le cattedre universitarie "firmate> sparse
nei mitici campus Usa ("e oggi, a girarci dentro, non diversi da un centro
commerciale, ci dice con tristezza la Klein): Cattedra Yahoo! di informatica
alla Stanford University, Corso di studi Lego Wayne State Univérsity. E' difficile
credere che ricerche uscite da laboratori di medicina o di ingegneria
sponsorizzati vengano nascoste o "corrette" se non convengono al
marchio di turno?
Spariti o compromessi i valori fondamentali delle Università:
trasparenza finanziaria, diritto d'espressione e di critica. Le fonti della
libertà e dei sapere. "Ma l'inquinamento delle menti comincia ben prima,
nelle scuole primarie o secondarie, commenta Naomi Klein. "io c'ero quando
la pubblicità entrò, ma i bambini e ragazzi che entrano ora pensano che sia
sempre stato cosi. Che la realtà, la vita tutta sia logo. Purtroppo la memoria
nella scuola è lunga al massimo cinque anni, il tempo dei cicli".
Dietro quest'invasività delle marche e conseguenti vendite
stratosferiche, non c'è niente di concreto. <il senso delle fabbriche:
sparite. L'ideale delle corporation è il "peso zero". La Nike
è stata l'apripista. Non possiede un solo stabilimento. Ma le fabbriche ci
sono, anche se impresentabili. Sono in 70 Paesi del mondo (Terzo e Quarto) e
impiegano 27 milioni di gente pagata pochissimo, quasi niente, e abusata sotto
ogni profilo. Ogni tanto .uno scandalo solleva un velo su questa moltitudine di
dannati, bimbi compresi, che sdegnosamente le varie Adidas o Ralph Láuren. o
Shell o Levi's o Gap non riconoscono come loro dipendenti. E, in effetti, non lo
sono. Prendi i capi e scappa, è il loro metodo. Ma a proposito di questa
vergogna planetaria qui vale di più ricordare quanto la: Klein risponde a
quanti si tolgono il peso di, coscienza ricordando che "anche da noi la
rivoluzione industriale fu terribile.e mieté tante vittime". D'accordo con
Kevin Báles, autore dell'inchiesta I nuovi schiavi. La merce umana
nell'economia globale (Feltrinelli), la Klein afferma: no, in Birmania o
Messico o Filippine non si è in presenza di un processo inevitabile della
storia verso l'arricchimento. No, qui le 'tecnologie sono trapiantate, nessun
mezzo di ricchezza si ferma, nessuna infrastruttura si può creare, né
può formarsi un ceto medio. In più, oggi qui, domani là: se qualcosa va
.leggermente storto o altrove 16 ore di lavoro si pagano un dollaro anziché
due, si sbaracca tutto e si trasloca. Sempre da non proprietari, s'intende.
Perché il logo è volatile, e tutto è logo.
"Ma tanti tanti ora dicono di no", dice la
Klein.
"Quando è uscito il mio libro c'erano sacche sparse di ribellione e ora si
sono unite in movimento. Visto questo, non si può che avere speranza: di
spezzare l'accerchiamento, perché la gente si sente insultata, di ripristinate
spazi Pubblici senza pubblicità". Reclaim the streets, riprendiamoci
le strade, è in effetti il nome di uno dei movimenti più attivi che Naomi
Klein cita. Non è tutto, ma è un :buon inizio. E già che ci siamo
riprendiamoci anche i metrò, le attese senza spot, gli sguardi senza slogan, le
orecchie senza jingle. Anche gli inevitabili momenti di noia senza marca. Il
.libro della Klein va letto. Se ne esce con avvilimento e con rabbia. Ma anche
con la coscienza che si tratta dell'abbecedario di una diversa, inedita ecologia
con cui è molto urgente prendere dimestichezza.
Il libro: "No logo" di Naomi Klein, B aldini & Castoldi, pagine 454