se è vero che non siamo mai stati umani, che fare?
Nicholas Gane intervista Donna Haraway
NG: Il Manifesto Cyborg fu pubblicato per la prima volta
nel 1985 sulla Socialist Review, quindi nel 2006 ha
compiuto ventun anni. Quali erano gli scopi e i motivi che le hanno
spinto a scrivere quel saggio?
DH: All’inizio degli anni Ottanta mi fu chiesto in due occasioni
di prendere posizione in forma scritta sulle discussioni del
femminismo socialista americano e più in generale del movimento
della Nuova Sinistra (New Left). Per quanto riguarda gli Stati
Uniti, subito dopo l’elezione di Reagan il collettivo della Socialist
Review della West Coast chiese a me e a molte altre – Barbara
Ehrenreich ad esempio– di scrivere cinque pagine sulla questione
del femminismo socialista chiedendoci quali fossero le cose più
urgenti da cambiare nella politica. La domanda era sul futuro dei
nostri movimenti in seguito all’elezione di Reagan, e naturalmente
su cosa rappresentasse più in generale quella elezione dal punto di
vista culturale e politico, non solo negli Stati Uniti ma nel resto
del mondo. La Thatcher in Inghilterra rappresentava in parte le
medesime tendenze, ma eravamo di fronte a una formazione ideologica
che superava il livello strettamente nazionale.
Ci chiesero perciò di scrivere cinque pagine su questi temi a
partire dagli strumenti della nostra tradizione politica; quello fu
l’impulso immediato per la stesura del testo pubblicato poi sulla Socialist
Review e circolato come ‘manifesto per i cyborg’, ovvero,
come in realtà volevo intitolarlo, Cyborg Manifesto, in
relazione ironica con il manifesto comunista di Marx. Vi fu poi
un’altra occasione legata alla medesima rete: una conferenza
internazionale dei movimenti della Nuova Sinistra che si tenne a
Cavtat nella ex-Jugoslavia (ora Croazia) un paio di anni prima della
pubblicazione dell’intervento sulla Socialist Review. Mi
fu chiesto di rappresentare a quella conferenza il collettivo della Socialist
Review; questo mi aiutò a pensare in modo più transnazionale
all’informatica del dominio, alla politica cyborg e alla
straordinaria importanza degli universi creati dalle tecnologie
dell’informazione.
C'era poi la mia storia personale di biologa. In effetti ho un PhD
in biologia. Amavo la biologia ed ero sinceramente appassionata ai
suoi progetti di conoscenza, alle sue materialità, ai suoi
organismi e universi. D’altra parte ho sempre abitato il campo
della biologia a partire da una formazione accademica altrettanto
rigorosa di stampo letterario e filosofico. Politicamente e
storicamente non ho mai potuto accettare l’organismo come
‘qualcosa che semplicemente esiste’. Ero estremamente
interessata a come ogni organismo è oggetto di conoscenza in quanto
sistema di produzione e ripartizione di energia, e come sistema di
divisione del lavoro in funzione dell’esecuzione di compiti. Una
storia dell’ecosistema come oggetto poteva emergere soltanto in
una cornice che comprendesse la gestione delle risorse, la
localizzazione delle energie mediante i livelli trofici, i
dispositivi di tagging svuluppati nei laboratori atomici di
Savannah River, e i legami interdisciplinari sviluppati in tempo di
guerra tra cibernetica, chimica nucleare e teoria dei sistemi.
Non ho mai potuto veramente occuparmi di biologia senza la coscienza
impossibile della radicale storicità di quegli oggetti di
conoscenza. Dopo aver letto Foucault è impossibile rimanere come
prima. Tuttavia non sono mai stata postmoderna a partire da una
prospettiva letteraria o di storia dell'architettura. Per me si è
sempre trattato della materialità delle strumentazioni di organismi
e laboratori; sono sempre stata interessata ai diversi attori
non-umani sulla scena. Il Manifesto cyborg è nato da tutto
questo.
NG: Naturalmente il Manifesto è anche un manifesto di
teoria femminista.
DH: E’ un documento teorico femminista che affronta la questione
del mondo in cui viviamo e pone la domanda ‘Che fare?’ I
manifesti sono provocatori perché pongono due domande: a che punto
ci troviamo, e cosa possiamo fare a partire da qui? La domanda sul
‘Che fare?’ è già nel trattato di Lenin del 1902, ma la mia
risposta è molto diversa dal suo appello per la costituzione di un
partito rigidamente controllato di rivoluzionari specializzati.
NG: Lei ha affermato che alcuni lettori del libro erano da una parte
disposti ad ‘accettare il Manifesto cyborg nella sua
analisi della tecnologia’ ma dall'altra tendevano a ‘mettere da
parte il femminismo’(Haraway, 2004: 325). Forse possiamo
cominciare da qui. In che senso il Manifesto cyborg
è un manifesto femminista? In seguito lei ha parlato di un
‘femminismo che non abbraccia la Donna, ma è per le donne’(2004:
329). Qual è esattamente il fondamento di tale femminismo?
DH: Beh, la questione è complessa; possiamo soltanto seguire un
paio di linee guida nel riflettere intorno a questo problema.
Partendo da bell hooks, e dunque considerandolo come se fosse un
verbo, il femminismo ha a che fare con donne in movimento, e non con
uno specifico dogma. Insieme con molte altre sono stata
completamente assorbita dal movimento delle donne della mia
generazione. Sono stata coinvolta nella politica del movimento di
liberazione delle donne nato alla fine degli anni Sessanta, e da lì
ho maturato un’esperienza molto personale che aveva a che fare con
le sue divisioni di classe e di razza: la comprensione della forza e
dei limiti del femminismo storico che ho vissuto, personalmente, nei
miei piccoli ambiti collettivi.
Ma c'era anche una visione più ampia che cercava di testimoniare
l’impossibile speranza che il dis-ordine costituito non sia
inevitabile. Questa tradizione di pensiero proviene dalla teoria
critica e vede nel femminismo un gesto di rifiuto dinanzi alla
profonda sofferenza che è nelle vite delle donne di tutto il mondo
ed è radicata profondamente nella storia; al tempo stesso accetta
il fatto che non si è trattato sempre solo di sofferenza. Nelle
vite delle donne c'è molto da celebrare, nominare e sperimentare;
tra di noi si manifestano urgenti bisogni culturali e di
organizzazione politica – chiunque siano queste ‘noi’.
Il femminismo ha lasciato un’eredità complicata, è stato un
luogo di politica urgente e di intenso piacere che nasceva dal fatto
di far parte di un movimento di donne. A questo si aggiunga il fatto
che ci arrivavo da scienziata, perdipiù biologa, non quindi una
scienziata in senso tradizionale, e come cattolica, una cattolica
che pur rifiutando la Chiesa non è mai stata in grado di diventare
una semplice umanista laica. La semiosi è fatta di sangue e di
carne e non mi ha mai soddisfatto una semiotica puramente testuale
ed estremamente rarefatta. Il testo è sempre fatto di carne, e
generalmente non umano, non 'fatto', non 'uomo'. Questo significava
e significa ancora per me il femminismo.
NG: Alcuni lettori del Manifesto hanno osservato che lei
‘insiste sulla femminilità del cyborg’ (Haraway, 2004: 321).
E’ corretto? In un passo importante lei scrive che ‘il cyborg è
una creatura di un mondo post-gender’(1991a:150), ma in seguito ha
dichiarato che non le è mai piaciuto il termine ‘post-gender’(Haraway,
2004: 328). Come mai? In un mondo ricco di trasversalità in cui i
confini tra natura e cultura non sono più limpidi, il concetto di
‘post-gender’ potrebbe avere una certa utilità. Alla fine del Manifesto
lei allude al ‘sogno utopico’ di ‘un mondo mostruoso senza
genere' (1991a: 181). L’idea di trascendere il genere, allora, non
sarebbe niente più (o niente meno) che un ‘sogno utopico’?
DH: No! Naturalmente il genere è ancora in mezzo a noi, e più
spietatamente che mai. Anche se vi sono delle piccole increspature,
esso viene ricostituito in tutta una serie di modi. Ma vi è anche
un universo ‘in transito’, e ciò fa sì che gender non
sia più il termine giusto. Ci sono delle persone trans che stanno
facendo un lavoro teorico veramente interessante, tra le quali una
mia ex studente – Eva Shawn Hayward – che rifiuta di usare il
termine genere in relazione a delle persone (2004).
Attraverso i prefissi post- e trans- si stanno facendo un sacco di
cose interessanti. Non si tratta di un sogno utopico ma di un
progetto in corso e interamente sul campo. Ho qualche problema con
il modo in cui alcuni aspirano a un mondo utopico 'post-gender' e
dicono “Eh, allora non importa più se sei uomo o donna”. Questo
non è vero. D’altra parte in alcuni luoghi di immaginazione e di
creazione di universi, è effettivamente vero, per motivi che
possono essere buoni o meno buoni.
NG: Che cosa ne pensa del genere in un mondo sempre più dominato
dalla trasversalità?
DH: Nel modo in cui Susan Leigh Star e Geoff Bowker mi hanno
insegnato a pensare: bisogna lavorare sulle categorie (Bowker-Star
1999). Senza mitizzarle. Senza pensare che spariscano solo perché
le abbiamo sottoposte a critica. Le categorie non svaniscono solo
perché noi o il nostro gruppo ha capito come funzionano, e non è
detto che siano costruite artificialmente soltanto perché abbiamo
capito che sono il risultato di operazioni. Per certi aspetti
viviamo in un universo post-gender, per altri viviamo invece in un
mondo dove il genere è insediato spietatamente. Forse le teoriche
femministe di colore sono quelle che hanno visto nel giusto quando
hanno detto che viviamo in un universo di intersezioni. Leigh e
Geoff volevano dire una cosa analoga quando hanno introdotto il
concetto di momento torcente. Siamo in un universo dove gli
individui devono abitare simultaneamente entro diverse categorie non
isomorfe, ciascuna delle quali opera su di essi una pressione
vettoriale. Di conseguenza per certi versi l’idea di 'post-gender'
ha un senso, ma mi irrita quando la vedo trasformata in progetto
utopico.
NG: Vuol dire che lei ha usato il termine 'post-gender' come
provocazione, mentre altri l’hanno poi sviluppato in altre
direzioni?
DH: Sì. Che dire poi dell’idea di un mondo senza genere, almeno
per come lo conosciamo? Alcuni l’hanno interpretato come un
universo senza desiderio, senza sesso biologico, senza inconscio, e
certamente non volevo dire questo. Intendevo dire che la teoria
freudiana dell’inconscio è soltanto una analisi dei legami più
prossimi, per quanto assai efficace.
(Theory, Culture & Society 23/7–8, pp. 136-58;
traduzione di Marco Pustianaz)