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Hannah Arendt
1906-1975

Hannah Arendt
Hannah Arendt

Quest'anno come tutti sapete è stato il centenario della nascita di Hannah Arendt. Sono stati pubblicati, e ripubblicati, in tutto il mondo un numero enorme di testi.
Anche in Italia sono uscite nuove edizioni e ristampe di vecchie edizioni, io sto cercando di approfittarne e di comprarne il più possibile..
L'altro giorno Carmilla ha postato una parte della bellisima intervista di Günter Gaus, Che cosa resta? Resta la lingua, trasmessa il 28 ottobre1964 dalla televisione dellla Repubblica federale tedesca. Il post di Carmilla è stato ripreso anche da Materiali resistenti.
Non credo che la seconda parte dell'intervista esista in rete, mi piacerebbe copiarvela ma per ora non lo faccio e spero che altri lo facciano prima di me, intanto, per chi sa il tedesco, segnalo che può leggersi tutta l'intervista su Zur Person.
La Stampa ne aveva pubblicati, con una breve nota, alcuni stralci il 15 settembre2001 ripresi e fatti circolare da Peacelink
Carmilla ha anche linkato Tutti i libri di Hannah Arendt disponibili in lingua italiana.
Ultimamente la Feltrinelli ha pubblicato una Antologia degli scritti di Hannah Arendt al prezzo di soli 9,50, a cura di Paolo Costa dove come primo scritto trovate proprio tutta l'intervista di Gaus e dove, come ultimo scritto, trovate lo splendido saggio, tradotto da Laura BoellaL'umanità in tempi bui, Riflessioni su Lessing, che era appena uscito da Cortina a cura e con introduzione di Laura Boella..Il saggio era stato pronunciato il 28 settembre 1959 "come discorso in occasione del conferimento del premio Lessing, prestigiosa istituzione della Libera Città Anseatica di Amburgo. Si trattò del primo riconoscimento pubblico ufficiale dell'autrice di Le origini del totalitarismo (1951), e di Vita activa (1958)" . Il discorso dedicato a Lessing diventerà il saggio introduttivo alla raccolta Men in the Dark (1968) in cui Hanna Arendt comporrà il suo personale libro degli amici comprendente saggi dedicati a scrittori, poeti e filosofi (cfr. L.Boella, Introduzione. Una politica dell'amicizia,  in L'umanità tempi bui, Raffaello Cortina Editore,  2006, pp. 7-8 e 19).
Va anche segnalato che un altro dei saggi di Men in the dark è stato ristampato nel 2004 (e si trova ancora) dalla SE ed è quello su Walter Benjamin a cura di Federico Ferrari e tradotto da Marzia De Franceschi.
Sono stati moltissimi gli speciali che i giornali le hanno dedicato quest'anno, ricordo fra i tanti quello del Manifesto (14 ottobre 2006), di Liberazione (Queer, supplemento di domenica 8 ottobre 2006), di Micromega (8/2006), il pezzo di Paolo Flores D'Arcais, Il totalitarismo secondo la Arendt è uscito anche su La Repubblica, 13 ottobre 2006, p 60. Segnalo inoltre anche un articolo di Barbara Spinelli su La Stampa, Arendt: il cuore in politica genera mostri, 19 ottobre 2006

Hannah Arendt
Quando il tempo, ovvero il senso dell'essere dell'esserci a volte è privo di copula

Hannah ArendtCome ormai i frequentatori di questo blog sanno io sto leggendo, con grande piacere, l'epistolario tra Hannah Arendt e Martin Heidegger.
E' una lettura avventurosa e coinvolgente.
E un dialogo alla pari, quello fra i due filosofi. 
Hannah è molto intelligente e spesso fa delle domande singolarmente profonde e interessanti, domande che sembrano semplificare e mettere a nudo il pensiero apparentemente "impossibile" di Heidegger.
Heidegger da parte sua ascolta Hannah con piacere e vero interesse e senza alcuna presunzione. Hanna è colei  che quando entrò nel suo studio, "con l'impermeabile, il cappello calcato fin sopra i grandi occhi quieti [...] timida e riservata, diede una breve risposta a tutte le domande" e fece capire, e solo allora, al filosofo che "la vita è storia". E' inoltre l'unica persona che lo abbia veramente capito: ""più di ogni altro tu hai colto il movimento interno del mio pensiero e del mio insegnamento" e il 22 giugno del 1972 le scrive: «Spero di venire a sapere qualcosa del tuo lavoro, altrimenti non ho alcuna possibilità di imparare ancora».

In una lettera del 1971 da New York Hannah ringrazia Heidegger per un libro sulla teologia e aggiunge:
 In realtà negli ultimi anni l'interesse per le questioni teologiche è assai diminuito tra gli studenti, ma tutto ciò che proviene da te suscita il massimo interesse. Conosco diversi studenti che studiano il tedesco «per poter leggere Heidegger».
Poi Hannah gli pone delle domande sul
parlare, ascoltare e dire:
A me sembra che il dire provenga dal pensare, ma che questo non accada invece, almeno non immediatamente, con il parlare. Il parlare proviene dal dire? Qual è il reciproco rapporto tra parlare e dire?
Ma l'osservazione, a mio giudizio più interessante è quando gli scrive:
Ancora una piccola osservazione: Tu dici che parlando, in modo più o meno esplicito, noi diciamo ovunque «è». Ora, tu sai naturalmente che questo non succede affatto nella lingua ebraica. A questa lingua manca la copula. Quale conseguenza avrà?

Io non sono molto ferrata in filosofia, anche se mi interessa molto, ma mi interessa non indagare gli assoluti, ma bensì solo per risolvere i problemi quotidiani, beh non so se lo avete mai sperimentato, ma alle volte aver letto Platone, Aristotele o Kant può servire anche a riempire la lavastoviglie a con più metodo o a capire meglio un tuo eventuale avversario e così potertene difendere neutralizzandolo. Oppure anche solo per avvicinare l'altro senza che si spaventi o per allontanarlo spaventandolo. Insomma la filosofia non migliora la qualità della vita, non rende felici, non fa fare soldi, ma aiuta ad essere disperati consapevolmente e quindi a poter affrontare il tutto con... più filosofia.
Beh, ho divagato un po' troppo, infatti quello che volevo dire, in realtà, era più semplice e  divertito e cioè che ho trovato fantastica la scena che mi è apparsa davanti agli occhi, un vero pezzo di teatro di successo: il grande (la sua grandezza è indiscutibile) filosofo dell'essere, che ha costruito la sua poderosa gigantomachia dell'essere intorno all'essere. All'essere, all'
essere dell'esserci e al senso dell'essere dell'esserci, e che si vede smontare tutto il gigantesco edificio, fin dalle fondamenta, da una semplice banalissima osservazione: Guarda che in qualche lingua non esiste la abusata copula dell'essere.
Non so come Heidegger l'abbia presa, perchè se mai ha risposto al quesito di Hannah non l'ha fatto, purtroppo, per lettera.
Ad ogni modo anche la lingua araba è priva della copula «é» e del suo abuso. 
Sembra un problema da poco, ma se è vero che la percezione del tempo (senso dell'essere dell'esserci)  è alla base e condiziona il nostro esserci, lanostra esistenza nel mondo, allora vuol dire che non esiste una sola percezione del senso dell'esserci, ma molte e diverse, e che si immergono e sono condizionate da lingue e pensieri diversissimi.
Ora sia ebrei che arabi conoscono benissimo molte lingue (come minimo conoscono l'inglese) e quindi conoscono, sperimentano e usano  il senso dell'essere dell'esserci occidentale, ma i parlanti occidentali, quelli della copula in eccesso, raramente conoscono una lingua senza copula.
Cosa vuol dire questo?
Qualcosa deve voler dire, e forse vuol dire che noi presuntuosi occidentalocentrici crediamo di capire tutto e invece non capiamo che una piccolissima parte del mondo e su quel poco che conosciamo costruiamo cattedrali vertiginose, fragili e violente e poi, arroganti, pretendiamo di esportarne i modelli anche dove da secoli, per forza di cose, sono avanti a noi nella conoscenza del mondo, dell'essere, del non-essere, del senso dell'essere dell'esserci.
E se creassimo fra noi terresti una copula di comprensione, un vero rapPORTO alla pari?

Hannah Arendt
Confessioni di una teorica che detestava essere etichettata

Io, spesso fraintesa a destra e a sinistra
di Hanna Arendt

Hannah Arendt con la madre
La sinistra, si sa, mi considera conservatrice, mentre i conservatori talvolta mi ritengono una persona di sinistra, un’avversaria o Dio sa che. Per quanto mi riguarda devo dire che la cosa mi lascia del tutto indifferente.
Non credo che questo genere di cosa possa far luce in nessun modo sulle vere problematiche di questo secolo. Io non appartengo ad alcun gruppo. I sionisti sono l’unico gruppo al quale io sia mai appartenuta, e soltanto per colpa di Hitler, beninteso. E comunque soltanto dal 1933 al 1943, dopo di che ho rotto con il sionismo. Avere soltanto la possibilità di difendersi in quanto ebrei, non in quanto essere umani: ecco, all’epoca pensai che fosse un grave errore il fatto che in quanto ebrei se si era attaccati non era possibile rispondere: «Scusatemi, non sono ebrea, sono un essere umano». E stupido.
Sguazzavo in questo genere di stupidità. Non c’erano alternative. Così mi sono impegnata nella politica ebraica. A dire il vero, non proprio in politica. Ho lavorato in ambito sociale, il che da un certo punto di vista era collegato alla politica. Non sono mai stata socialista. Non sono mai stata comunista.
Provengo da un ambiente socialista: i miei genitori erano socialisti, ma per quanto mi riguarda non ho mai avuto la minima velleità di esserlo. Ecco perché non posso rispondere a questa domanda. Non sono mai stata liberale. Quando ho detto che non lo ero, ho trascurato però di precisare che non ho mai creduto al liberalismo. Quando sono arrivata in questo paese, ho scritto nel mio inglese zoppicante un articolo su Kafka. L’hanno «inglesizzato» per pubblicarlo sulla Partisan Review. Quando mi sono recata da loro per parlare di tale inglesizzazione» ho riletto il mio articolo e mi è saltata agli occhi, tra tutte le altre, la parola "progresso". Ho obiettato: «Che cosa intendete dire? Io non ho mai adoperato questa parola». A un tratto uno dei redattori è andato nella stanza accanto, da un altro redattore.
Mi hanno piantata lì e li ho sentiti esclamare, in tono davvero sconsolato: «Non crede neppure al progresso!».
Non condivido l’enorme entusiasmo di Marx per il capitalismo.
Se si leggono le prime pagine del Manifesto del Partito Comunista ci si trova davanti il più famoso elogio del capitalismo che sia mai stato fatto. E questo, in un’epoca nella quale il capitalismo era già bersaglio di attacchi sferzanti, in particolare dalla destra. I conservatori sono stati i primi a produrre queste numerose critiche, in seguito riprese dalla sinistra, ma altresì da Marx, certo.
In un certo senso Marx aveva p e r f e t t a mente ragione: il socialismo è il risultato logico del capitalismo. La ragione di tutto ciò è molto semplice: il capitalismo è cominciato con l’espropriazione. E la legge che allora ha determinato lo sviluppo, e il socialismo persegue l’espropriazione fino alla sua conclusione logica, da un certo punto di vista, sfuggendo a qualsiasi influenza moderatrice. Quello che comunemente si denomina socialismo umanitario significa molto semplicemente che questa tendenza crudele che ha avuto inizio con il capitalismo e si è perpetuata con il socialismo è più o meno attenuata dal diritto.
Qualsiasi processo produttivo moderno in verità è un processo di espropriazione progressiva. Io mi rifiuterei sempre, pertanto, di operare una distinzione tra i due: per me si tratta in realtà di un solo ed unico movimento.
Da questo punto di vista Karl Marx aveva ragione: egli è stato l’unico ad aver effettivamente avuto il coraggio di pensare a questo nuovo processo produttivo che si è propagato nell’Europa del XVII, poi del XVIII e infine del XIX secolo. Fino a lì, la cosa è assolutamente vera. Solo che si trattava di un inferno: l’esito finale non è stato il paradiso.
Ciò che Marx non ha compreso è che cosa sia davvero il potere. Egli non ha compreso questa cosa, specificamente politica. D’altro canto, egli ha però visto un’altra cosa, ossia che il capitalismo, abbandonato a se stesso, ha la tendenza a spazzare via qualsiasi legge si frapponga alla sua crudele avanzata.
La crudeltà del capitalismo nel corso del XVII, del XVIII, e del XIX secolo è stata, secondo ogni evidenza, schiacciante. Non lo si deve perdere di vista allorché si legge il formidabile elogio che Marx fa del capitalismo: nel momento stesso in cui si dilungava sulle conseguenze più abominevoli di questo sistema, ciò non di meno egli ha creduto che si trattasse di qualcosa di molto importante.

Beninteso: Marx era anche hegeliano e credeva nella forza della negatività. Ebbene, da parte mia io non credo affatto nella forza della negatività e della negazione, se questa provoca profonda infelicità agli altri».
Traduzione di Anna Bissanti
Diario, La repubblica, 2 dicembre 2005, p. 51 

 
Hannah Arendt
e la guerra

Hanna Arendt 1928

 
Hannah Arendt, la rimozione della guerra nel discorso politico
di Alessandro Dal Lago

In libreria gli atti di un convegno dedicato alla filosofa. Nel saggio di Alessandro Dal Lago, tratto dal volume, la tesi secondo cui la pensatrice sarebbe stata incapace di scorgere la matrice militarista della democrazia occidentale

Uno stralcio del saggio “Il lato oscuro della Polis. Hannah Arendt e il problema della guerra”, dal volume “Hannah Arendt. Percorsi di ricerca tra passato e futuro 1975-2005” (a cura di Margarete Durst e Aldo Meccariello, edizioni Giuntina, pp.208, euro 15). 

Se si volesse identificare la fortuna di Hannah Arendt con uno slogan, si dovrebbe parlare ancora oggi di “attualizzazione della polis”. Il principio della politeia, della supremazia esistenziale della vita politica, opera come cartina di tornasole per una critica impietosa della spoliticizzazione della modernità. Mentre in Schmitt una decostruzione analoga si risolve nel privilegio di una concezione polemologica del politico, in Arendt la degradazione della politica in comportamento amministrativo è vista nella prospettiva degli attori, al livello della loro esistenza pubblica: è in questo senso che una personalità filosofica per certi versi conservatrice - o per lo meno estranea a qualsiasi culto del progresso - è stata identificata con uno spirito liberatorio e perfino con una concezione radicale dell’azione politica. A mio avviso, senza il principio controfattuale della polis, la critica arendtiana dell’“animale sociale” e di homo faber perderebbe molta della sua forza. La miseria della politica moderna e contemporanea è tanto più evidente, quanto più illuminata dalla concezione del cittadino greco che agisce gratuitamente sulla scena pubblica, perché è questa che lo libera dalla mera sfera della riproduzione. Si possono fare (e ovviamente sono state fatte) le critiche più varie a una concezione così anti-utilitaristica dell’agire politico (romanticismo, elitismo, ellenismo inattuale, irrealismo ecc.); ma il suo valore diagnostico è indiscutibile, se solo pensiamo che per la grande maggioranza dei cittadini dell’occidente democratico la vita politica si risolve, ogni tre o quattro anni, nel rito di deporre una scheda nell’urna.