La vita e' sogno e la morte ci sveglia
Di solito, da vivi,
confondiamo facilmente i morti con la morte, senza renderci conto
che la morte non esiste e che i morti camminano tra noi.
Nei giorni di rimembranze
in novembre, andiamo al cimitero, guardiamo il marmo freddo delle
lapidi, le erbacce, i fiori di plastica e restiamo sgomenti.
Qualcosa è scomparso per sempre, non tornerà più. E questo che ci
aspetta dopo una vita di amare delusioni e piccole gioie? Esplorando
il vuoto della casa, di una stanza un tempo calda e abitata, delle
cose che conservano tenacemente il profumo degli scomparsi scivolati
fuori dal tempo, cerchiamo di immaginare una poltrona che possa
accogliere i morti, una sala d’aspetto dove possano aspettarci e
una via, un sentiero, che possa portarci a loro. Ma non troviamo
niente.
Se ascoltate il vostro cuore, lo sentirete battere all’impazzata
tanto da oscurare gli occhi, la mente, la memoria ma non sentirete
alcuna risposta. La cosa sicura è che lì in quella fossa, in quell’urna
di ceneri o nell’indefinibile fluttuare di un paesaggio, di un
albero odi un’ombra è raccolto tutto ciò che è stato per un
tempo breve o lungo il supremo senso della vostra vita.
Ed ora tutto si è disfatto come una nebbia. Osservando quella tomba abbandonata in un piccolo cimitero sotto la neve, quella lastra di marmo confusa tra infinite altre, sperimentiamo, nel dolore dell’eterna assenza, l’indifferenza della morte che è la regola sublime perché inviolabile di questo universo. Certo, la morte, questa perdita senza paragoni né antidoti, è il dolore più profondo che si possa sperimentare, finché il cuore, con le sue leggendarie intermittenze, non ci aiuta ad aggirarne il vuoto e a ritrovare una quiete, un intenerito oblio. Eppure quel vuoto inaspettato ci ha sempre circondato, ha sempre fatto parte delle nostre inaspettate emozioni senza però volerlo mai riconoscere o chiamarIo per nome. Sarebbe bastato osservare il buio che scivola di soppiatto nelle strade a una certa ora, infischiandosene del tramonto o delle vetrine illuminate. Oppure, se camminate lungo il sentiero di un bosco, il silenzio profondo, improvviso degli uccelli (ma anche in città, a Roma, quello degli storni, dei gufi o dei gabbiani), in certe ore sempre uguali. Basterebbe fermarsi ad ascoltare quel silenzio. Per quanto elaborato sia il lutto e la rimozione che la memoria ci concede, quando ci si avvicina a una certa stagione, a una certa data che forse avevamo scordato e che ora ha un particolare insignificante, il riflesso su una vetrina, l’odore di un caffè o semplicemente il riaffiorare di un ricordo che viene ad invitarci ravviva quel senso di desolazione che non è solo della morte ma del vivere. Un dolore inevitabile e inaspettato come la vocazione inutile e pur sublime di una foglia che, in questa stagione si stacca dal ramo quasi spoglio.
Nella poesia Il cappello regalato al poeta da Li Chien, Po Chu-i, forse il più grande tra i poeti cinesi della dinastia T’ang (che potrete trovare in una vecchia ma preziosa edizione Einaudi con copertina di tela verde muschio, a quattro euro su una bancarella di piazza Esedra) ha descritto come nessun altro questo senso di calma perfetta, desolata, immateriale. È più facile non pensare affatto alla morte, rimuovere qualcosa in cui sappiamo benissimo di nuotare. Oppure, se ci pensiamo, ci figuriamo un momento, un luogo, una forma verso cui noi e il nostro corpo, ancora solidali, saremo diretti come nel film di Woody Allen (Scoop), dove su un nero barcone, un gruppo di mondanissimi quanto freschi defunti è impegnato in un gossip cui manca solo una teiera, mentre la morte, avvolta nel suo saio nero come un intramontabile Balenciaga, sta impassibile a poppa e ci rasserena. Ma quando il film è finito e l’happy end del film è rimasto tra le poltrone tiepide e vuote, la morte riappare. Basta vedere, all’uscita, il volto di qualcuno che abbiamo perso per sempre. lì cuore lo riconosce e poi la memoria fa il resto finché la folla non lo riassorbe e cancella tutto di nuovo. Allora, mentre ci avviamo nel traffico, ci domandiamo cosa resti di quello che abbiamo amato, perché sia scomparso in un attimo. Non era quell’essere l’universo che dava un senso alla nostra vita? Perché è morto? Cosa è morto? Ma non troviamo nessuna risposta. Questo silenzio, questa ansia di sapere, di vedere l’altro mondo, una curiosità morbosa, spiega il successo imprevedibile del Bardo Thogrol, conosciuto soprattutto come Libro dei morti tibetano, da quando nel 1927, Evans Wentz, ribattezzandolo con questo titolo impreciso quanto fortunato, lo sottrasse, con una romantica versione inglese della Oxford University Press, ai segreti dei "gompa"tibetani affollati di divinità Pacifiche e Feroci e di viaggiatori occidentali, fra tutti Giuseppe Tucci che, trafugandone una copia da qualche fatiscente monastero dello Shang Shung, tradusse per primo in italiano il Bardo Tbosgrol, quando in Tibet ci si andava a piedi (fra le molte edizioni, ultima è quella, certo non definitiva e autorevolmente confusa, de gli Oscar Mondadori).
Nella tradizione buddista il viaggio dall’ultimo respiro alla rinascita dura sette settimane. E da lì tutto ha inizio
Il Libro dei morti tibetano è, più che un baedeker per i Regni Oltremondani, una guida per i vivi. Studiandolo e praticandolo si giunge a conoscere alcuni dei segreti che formano la nostra mente e la sua enigmatica natura. Dove ci guida il Bardo Thosgrol? Pur essendo un viaggio lungo sette settimane, dalla morte alla rinascita, non ci porta in nessun luogo. Gli elementi che costituiscono il corpo, al momento della morte (quando sia la respirazione esterna che quella interna finiscono) si disgregano. Spazio, aria, terra, acqua, fuoco collassano uno nell’altro producendo sensazioni e visioni, descritte molto accuratamente, ciascuna generata dagli organi che via via smettono di funzionare. Poi due gocce, una bianca, lunare e una rossa solare che, dividendosi, avevano prodotto il nostro embrione e indotto la nostra apparizione nel mondo sensibile e doloroso in cui viviamo, il samsara, la ricongiungono nel cuore. L’incontro di queste due gocce produce un tenebra profonda che sancisce definitivamente la morte. Tutto finito? No, tutto ha inizio. Sappiamo che la vita è un sogno, un’illusione. E se conoscete Parmenide, Eraclito o avete letto il libro del grande fisico Julian Barbour, La fine del tempo (Einaudi), avreste dei seri dubbi anche sull’esistenza del tempo. In ogni caso possiamo constatare che i due "luoghi" dove la nostra mente bivacca più volentieri, sistemando i suoi ricordi, le sue paure, i suoi progetti e i suoi rancori, vale a dire il "passato" e il "futuro", non esistono. Quanto al presente, consideriamolo un luogo instabile, inaffidabile, altamente improbabile, dove gli impulsi primordiali dell’attrazione e della repulsione, ci fanno trangugiare enormi quantità illusorie di piaceri e paure. Lo spazio che attraverseremo dopo la morte, il viaggio descritto dal Bardo Thosgrol, e le visioni che (forse) ci aspettano, nascono tutte da queste due pulsioni, accuratamente cucinate e concimate dalla nostra mente obesa da troppi Big Mac emotivi.
Dunque si muore. Il buio,
senza sogni come una profonda anestesia, ci cattura per la durata di
tre giomi e mezzo, quindi ci svegliamo. Quando tenete tra le mani l’urna
delle ceneri o guardate desolati una pietra tombale e quelle date,
quelle frasi incise che non vi sembrano vere, ricordate che dopo
quei tre giomi e mezzo, il morto vi potrà vedere. Forse vorrà
parlarvi ma non ci riuscirà. Il primo cambiamento che turba i
defunti è l’impossibilità di comunicare con i vivi. Ma voi, voi
forse potreste riuscirci perché dovreste sapere che il luogo dove i
morti adorano soggiornare è il vostro cuore. E c’è un motivo. Il
cuore è il luogo della compassione e i morti ne hanno un disperato
bisogno. Quando tutte le angosce si sono calmate, inizia il viaggio.
Dove? Con quale corpo? Secondo il Bardo Thosgrol, il corpo
che abbiamo, da morti non è solo un corpo mentale ma è quello
formato soprattutto dai desideri che nutrivamo da vivi e che adesso
nutrono pericolosamente anche noi. E il corpo di cui siamo stati
orgogliosi e che abbiamo avuto paura di perdere. Un corpo
immaginario, veggente, pura energia che non conosce ostacoli e si
muove alla velocità del desiderio, quindi assai più svelto della
luce.
Sarebbe un corpo perfetto se non fosse dominato dalle pulsioni. Con
questo corpo viaggerete nel post mortem, cioè nel paesaggio
sterminato della vostra coscienza che adesso è dominata dall’inconscio,
dal rimosso, dalle passioni torbide, dalle paure violente, dall’aggressività
sfrenata, che si organizzano come un nuovo mondo, fatto di
personaggi, paesaggi e cose capaci di sedurvi.
La salvezza sta nel riconoscere che le visioni più mostruose sono figlie delle illusioni che ci accompagnano da vivi
Se vi lascerete sedurre, senza riconoscere nei personaggi mistici o demoniaci che verranno ad invitarvi il gioco implacabile della vostra mente, finirete in uno degli inferni nei quali avete trovato carino o seducente specchiarvi. Difficilmente rinascerete come uomo, piuttosto la vostra predilezione vi farà vincere una vita da scarabeo stercorario, verme, calliphora, forse maiale. Forse andrete direttamente in uno degli otto inferni roventi (della vostra mente) o in uno degli Otto glaciali e per un tempo così lungo che solo l’ironia dei tibetani riesce a immaginare. Se aveste conosciuto da vivi le pratiche del Bardo Thosgrol, se aveste coltivato la compassione, non sareste arrivati nelle regioni più remote del vostro inconscio ma questo è il pericolo di farsi sedurre dall’illusione. La salvezza, quando si è morti, consiste nel non fare nulla. Restare calmi, riconoscere ogni visione, anche la più mostruosa, come un gioco della mente. Se riuscirete a capirlo sarete liberi dall’incubo della mente, che prospera sull’illusione del piacere e sulla paura del dolore Lo stato in cui vi troverete non si può definire. Come dice il pande maestro tibetano di dzog chen, Chog~al Namkhai Norbu, sarebbe come spiegare il sapore dello zucchero a qualcuno che non lo conosce. Solo l’esperienza del gusto dolce fa la differenza. Procuratevi lo zucchero. senso che, a questo punto, vi piacerebbe fare ma capatina dall’altra parte della vita, vedere com’è il mondo del Bardo. Non è difficile, al contrario. Guardatevi intorno, prendete un tad, entrate in una libreria, rispondete al telefono. Ci siete. Siete nel Bardo, nel mondo illusorio della vostra mente e ci siete sempre stati. Ve ~e siete accorti? No? Naturale, altrimenti non tareste ancora lì, in mezzo al traffico, con il cellulare incollato all’orecchio. Non distraetevi, guardatevi intorno, se capite che tutto quello che state osservando è una vostra illusione. Forse siete ancora in tempo a svegliarvi...
Fedi
- cosa
dicono i diversi "LIBRI".
Sheol e divoratori, fanciulle e miele gli altri Aldilà.
E gli altri? Qual è, se c’è, il futuro che attende i trapassati,
secondo i culti non cristiani?
Secondo il Corano
l’appuntamento per tutti è il Giudizio Universale, annunciato da
catastrofi naturali immani: è qui che verranno pesate su una
bilancia le buone e cattive azioni degli esseri umani. Poi ciascuno
dovrà attraversare il "golfo dell’inferno" su un ponte
più sottile di un capello e più tagliente di una spada, sotto il
quale spalancano le loro fauci gli inferi: chi cadrà (l’infedele)
brucerà nelle loro sei bolge, chi arriverà di là (il credente)
godrà del paradiso, un eden di piaceri sensuali, con fanciulle
incantevoli e ruscelli di acqua, latte, vino e miele. Prima del
Giudizio, e in attesa di esso, i morti giacciono privi di coscienza
nelle loro tombe. Fatto salvo per chi muore nella "guerra
santa" e approda direttamente in Paradiso.
Lo "Sheol" è invece il termine ebraico che indica il soggiorno dei morti, immaginato come terra d’oblio, di tenebre e di silenzio; luogo senza vita, come il deserto. Lo Sheol è collocato nel più profondo della terra (Dt 32,22), aldilà dell’abisso sotterraneo (Gb 26,5; 36, 16-17).
Il buddhismo offre una concezione del tempo diversa e ciclica: il tempo non ha inizio e non ha fine e tutti gli esseri viventi sono soggetti a un ciclo continuo di morti e di rinascite, in un costante mutare della loro natura. Questo ciclo cosmico della morte e della rinascita è il samsara, da cui si esce soltanto attraverso il raggiungimento del nirvana.
Tra le religioni arcaiche era quella degli Egizi a offrire, forse, lo scenario più articolato per la vita nell’aldilà: nei "Libri dei morti" si diceva che ogni essere umano, dopo la morte, poteva diventare tutt’uno con Osiride, fondendosi per questo tramite con la divinità assoluta e primaria Ba. A Osiride, dio del Sole, il compito di giudicare i defunti e decidere chi, buono, poteva passare nel suo regno e chi, colpevole d’uno dei 42 peccati elencati nel "Libro" stesso, dovesse invece finire nelle fauci del "divoratore".