noi e la morte
Scrive Jacques-Bénigne Bossuet: "È una singolare debolezza dello spirito umano il fatto che la morte non gli sia mai presente, per quanto gli si metta in mostra da ogni parte e in mille modi. I mortali si preoccupano di seppellire il pensiero della morte con la stessa cura con cui sotterrano i morti".
In alcuni crocevia della mia vita certi libri mi hanno salvato. Quando fuori non c'era nessuno, le parole mi hanno aiutato a rialzarmi, ridandomi fiducia. Come questo passo di Cioran: "Si possono classificare le persone in base ai criteri più fantasiosi, ma è la morte il vero criterio, ed è lei, la dimensione più intima di tutti i vivi, a separare l'umanità in due ordini così irriducibili che vi è più distanza fra loro che non tra un avvoltoio e una talpa, tra una stella e uno sputo. Fra l'uomo che ha il sentimento della morte e colui che non lo ha si spalanca l'abisso fra due mondi non comunicanti: eppure entrambi muoiono; ma l'uno conosce la sua morte, l'altro la ignora; l'uno muore un solo istante, l'altro non cessa di morire". È alla luce di questa frase che penso con tenerezza a mio padre ottantenne e alla sua paura di morire: costante, quotidiana, ossessiva. Come posso aiutarlo a vincere questo terrore dal momento che io sono come lui: un "condannato alla lucidità"? Stiamo facendo lo stesso percorso: attraversare la paura più grande nella speranza di raggiungere quella serena accettazione del nulla che diventeremo.
Livio Visigalli
In un saggio del 1915 dedicato a una riflessione sulla morte Freud dice che "nessuno di noi crede fino in fondo alla propria morte. Anche quando ci raffiguriamo come andrà dopo la morte, chi ci piangerà ecc., possiamo notare che noi siamo ancora lì in qualità di spettatori". A riprova, Freud cita la dichiarazione di un suo paziente che, riferendosi alla propria moglie, afferma: "Se uno di noi due muore, io mi trasferisco a Parigi". Dello stesso parere è Heidegger là dove scrive che: "Ogni volta che diciamo 'si muore' diffondiamo la persuasione che la morte riguarda il Si anonimo, sotteso al quale c'è la convinzione 'non sono io'. Infatti il Si anonimo è nessuno". Dunque la nostra psiche non sa pensare la propria morte. Sappiamo che si muore, ma non riusciamo a interiorizzare questo pensiero e a farlo nostro come qualcosa che riguarda proprio noi. Anche in presenza di gravi malattie, il cui esito infausto spesso è noto allo stesso paziente, una sorta di pensieri ingannevoli e una danza di cieche speranze distraggono la mente, che, pur sapendo, è incapace di iscrivere la propria morte nell'ambito del proprio vissuto. Anche l'angoscia di morte, spesso dipinta sul volto di chi è nelle prossimità di questo ultimo passo, non riguarda propriamente la morte, ma la perdita degli amori di cui si è nutrita la sua vita. Questa è l'angoscia di morte. Il suo tema è l'amore. Ma proprio perché la morte è così incatenata, intrecciata e inanellata all'amore, questo non si estingue con la morte della persona amata. E non il ricordo, ma la persistenza di questo amore è la vera eternità concessa agli uomini, ben segnalata da Sartre che in proposito scrive: "Essendo morta la sua vita, solo la memoria dell'altro può impedire che si avvizzisca tagliando tutti i suoi ormeggi col presente.
La caratteristica di una vita morta è di essere una vita di cui l'altro diventa il guardiano". Il contenuto profondo di questa memoria si chiama "amore", che permane anche in assenza dell'altro perché, come non cessa di ripetere Emanuele Severino: "La presenza è sempre, e non coincide con l'apparire e lo sparire". Quando non parliamo più con chi ci ha lasciato per non incontrare il suo silenzio, rischiamo di far tacere quello che noi siamo diventati grazie all'amore che abbiamo dato e ricevuto dall'altro. E così, separandoci da quella parte di noi che gli corrispondeva, noi lo facciamo semplicemente ri-morire. In questo modo, come scrive Paul Ricoeur, "anticipiamo la nostra futura morte come la possibile non risposta a tutte le parole di tutti gli uomini", diventando così infedeli a quella caratteristica tipica della condizione umana, per cui io non sono solo io, ma "anche un altro per gli altri". Qui si annida segretamente un'infedeltà tragica che fa impallidire tutti i futili tradimenti della vita. Non è la morte, infatti, a estinguere l'amore, ma la nostra rimozione che vuol dimenticare tutto ciò che quell'amore in noi ha generato, affidandosi a quel malfamato luogo comune, secondo il quale il tempo porta rimedio. Nel tempo c'è solo infedeltà. Solo nell'amore c'è eternità. E non dobbiamo dare al tempo il diritto di seppellire l'amore che ancora ci nutre. Pur sapendo, come scriveva Pirandello, che "i vivi credono di piangere i loro morti e invece piangono una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati". Questo è il dolore. Ma si è mai visto un amore che non si nutre anche di dolore?