il mito della sicurezza
scrive Freud ne Il disagio della civiltà: "L'uomo civile ha barattato una parte della sua felicità per un po' di sicurezza.
Leggendo
le nuove misure sicurezza al varo del Parlamento mi sono sorte
alcune riflessioni che vorrei rilanciarle, essendo un suo assiduo
lettore terrei molto a un suo giudizio. Quando ci si chiude in
cassaforte è importante avere con sé la combinazione per uscirne
quando si vuole. Può capitare che si chiuda la porta blindata alle
spalle, magari in seguito a un attacco di panico, e poi si scopra di
non avere a portata di mano la chiave per tornare alla libertà: in
questo caso o arrivano i fabbri o si rischia la morte per asfissia,
per entropia. In Italia noi ci stiamo chiudendo nella camera
blindata, a presunta prova di scasso, senza verificare l'esistenza
di una via di uscita, una fuga di emergenza. Il pacchetto sicurezza
al varo del Parlamento regala l'idea di protezione, ma senza avere
negli optional antidoti funzionali nel caso il sistema impazzisca.
Certo l'opinione pubblica, stimolata a dovere con maestria da
politici molto più bravi di noi a sinistra, può dichiararsi
soddisfatta, ma cosa può accadere cittadino per cittadino? Nei
secoli scorsi il controllo sociale era affidato a carceri disumane e
presenza militarizzata delle forze dell'ordine nelle città.
Malgrado ciò la delinquenza non diminuiva, anzi, vivevano solo
peggio le persone: i controllati come i controllori. Solo
modificando alcune condizioni di equità tra le classi, si è giunti
a una relativa sicurezza generale. Temo che ne riparleremo presto.
Temo però che quando cercheremo la chiave per uscirne, potremo
inciampare su stivali neri e fez: il nuovo look a protezione dalle
misure per la sicurezza. Così la cassaforte sarà la nostra tomba,
anche senza decreti fuorilegge firmati da Berlusconi diretti ad
assicurare la Chiesa sul fatto che non trattasi di eutanasia, ma
solo strage ai danni della libertà.
Juri Bossuto
Il passato non ritorna, perché il nostro stile di vita non accetta
più le forme truculente con cui il regime fascista regolava il modo
di vivere degli italiani. Avere quel modello come punto di
riferimento significa non comprendere cosa c'è di insidioso nel
neoproibizionismo che caratterizza il nostro tempo dove, come
documentava L'espresso in un bel servizio del 12 marzo 2009, le
ordinanze comunali sembrano facciano a gara per assediare il mondo
della vita con divieti che non consentono, ad esempio, di mangiare
cornetti di notte a Roma, di vendere kebab a Lucca, di baciarsi in
auto a Eboli, di sedersi sulle panchine a Vicenza, di mendicare a
Venezia, di fumare nei parchi pubblici a Napoli e a Bolzano o di
sostare con più persone a Novara. Si tratta ovviamente di ordinanze
che non possono essere ottemperate se non con un controllo massiccio
delle forze dell'ordine, della vigilanza urbana e, da ultimo, delle
ronde. E buona regola sarebbe non emanare leggi che non possono di
fatto trovare attuazione, trascurando magari il controllo
sull'ottemperanza di altre leggi ben più significative che vietano
ad esempio l'evasione fiscale, lo smaltimento dei rifiuti tossici,
l'abuso edilizio, lo spaccio delle droghe nelle discoteche dove non
sembra applicata la tolleranza zero. E allora che cosa di insidioso
nascondono tutte quelle micro-proibizioni che assediano il nostro
quotidiano modo di vivere? Un'infantilizzazione della nostra società,
dove gli individui sono trattati come bambini, a cui implicitamente
si dice "Tu non sai darti una regola da te e allora ti governo
io: Comune, Stato, Chiesa". Si diffonde così una morale
eteronoma, dove io non passo col semaforo rosso non perché ho
maturato un senso civico (morale autonoma), ma perché un vigile è
appostato all'angolo o una telecamera potrebbe riprendermi. La
morale eteronoma, che mi fa assumere comportamenti corretti solo in
presenza di chi potrebbe punirmi, denuncia un fallimento dei
processi educativi non avvenuta in famiglia e ancor meno a scuola,
per cui è da lì che bisogna ricominciare e non dalle proibizioni
che hanno come unico risultato quello di incentivare le
trasgressioni. Ma abbiamo la pazienza di insegnare fin da piccoli
che cos'è bene e che cosa è male, che cosa è grave e che cos'è
irrilevante? Perché se questa distinzione non è stata insegnata,
se questa differenza non è stata acquisita e interiorizzata, non c'è
punizione che tenga, perché non si ha la percezione
dell'infrazione, ma solo l'impressione che chi ci richiama ci sta
facendo un torto. E allora il proibizionismo che vuol mettere ordine
nella società denuncia solo il fallimento in quella società dei
processi educativi.