Gaza tragedia umana

LETTERA 138  - gennaio 2009 

Gli aquiloni di Gaza   -    Ettore Masina 

Vi sono momenti in cui la storia e il vangelo si incrociano e pare si confermino a vicenda. Il 28 dicembre di ogni anno la Chiesa rilegge la pagina del Nuovo Testamento in cui si racconta della strage di bambini di Betlemme ordinata da Erode. La Chiesa definisce quei piccoli con il nome di Santi Martiri Innocenti. In realtà si tratta di un racconto midrashico, cioè simbolico: nessun testo storico registra un avvenimento del genere nella Palestina di quel tempo. Adesso questo avvenimento e il nome che lo descrive sono diventati realtà: proprio a partire dagli ultimi giorni del dicembre scorso e proprio in Palestina, decine e decine di bambini vengono uccisi, non da sgherri assatanati ma da un esercito fra i più potenti della Terra con generali, bandiere, ferrea disciplina, minuziosi piani di battaglia.

Perché Santi e Martiri quei bambini di Betlemme coetanei del Signore? La liturgia risponde con una formula che a me pare stupenda: martiri e dunque santi perché non loquendo sed moriendo confessi sunt, perché non con parole ma con la morte hanno testimoniato il Cristo. Così, una volta di più, la riflessione evangelica coglie il nesso intimo fra il Salvatore e i più poveri dei poveri: il loro destino, la loro storia ignorata dai libri, persino la storia effimera (di pochi giorni, mesi o anni) dei piccini uccisi dalla violenza degli adulti sono storia sacra, inscritta nel mistero della croce. Qualcuno mi ha detto tempo fa che nelle icone ortodosse dell’Epifania la culla di Gesù bambino ha la forma di una bara. (Ma le notizie che arrivano da Gaza mentre scrivo, il 6 gennaio, dicono che la popolazione non riesce più a seppellire i suoi morti). Non con le parole ma con la morte testimoniano la realtà tutti i piccoli schiantati dalla nostra follìa o dalla nostra inerzia. Siano i bambini violati dai “turisti del sesso” o quelli schiacciati dalle fatiche di certi lavori “minorili”, le creaturine vietnamite che nascono deformi a causa dei defolianti disseminati dagli americani durante la guerra; o siano i ragazzini-soldati di certe aree africane o quelli uccisi, mutilati o psichicamente straziati dai conflitti, come i piccoli afghani e congolesi e sudanesi, quelli israeliani assassinati dai terroristi o, adesso, quelli massacrati dall’esercito israeliano, le vittime infantili del nostro tempo testimoniano che il male distende le sue ali di tenebra in tutte le epoche e i luoghi, e può insediarsi nel cuore di ogni uomo. I bambini violati e uccisi accompagnano con le loro ombre il nostro cammino e vanificano con i loro lamenti o i loro insanguinati silenzi la nostra pretesa di essere autori di una civiltà sempre più “umana”: giusta, cioè, libera, generosa. E tenera.
Credo fermamente che nessuno di noi possa “chiamarsi fuori” da queste realtà planetarie, che legami più o meno visibili ci saldino ai mali del nostro tempo e che non sia possibile uscire dalla nostra inevitabile condizione di carnefici (o, almeno, di favoreggiatori di carnefici) se non cercando di cogliere in tutta la sua valenza le nostre responsabilità. Credo, cioè, che innanzi tutto il nostro dovere non sia soltanto di piangere le piccole vittime ma di conoscere le condizioni storiche che le hanno crocifisse, per vedere se non sia possibile da parte nostra qualche intervento per un mutamento della realtà. Senza questa ricerca di informazioni è come se ci rifiutassimo di vedere il volto di quei bambini, di conoscerne il nome, di ascoltarne il lamento. Questa mancanza di informazioni emerge più che mai, oggi, davanti a Gaza. Mi sembra terribile: su un dramma planetario che da più di sessant’anni insanguina una Terra santa a tre religioni monoteiste, dunque a miliardi di persone, la gente ha idee confuse o addirittura non ne ha.

Gaza, la strage di tanti bambini (e dei loro genitori), la nostra pretesa di neutralità o addirittura la nostra compassione pesata al bilancino per l’una e l’altra parte in lotta, sono infatti una tragedia alimentata dalla disinformazione o dalla manipolazione dell’informazione. Se i palestinesi, i loro diritti violati, la libertà che gli viene negata sono così spesso ignorati da noi, cioè condannati, da mezzo secolo, all’insignificanza, è perché l’opinione pubblica internazionale è stata fortemente condizionata dalla propaganda israeliana. È ovviamente impossibile esaminare dettagliatamente come e perché, ma chi, come me, segue con attenzione, da cinquant’anni la vicenda medio-orientale sa bene che è un discorso necessario per uscire da una situazione di profonda ingiustizia: e che si possono porre, al riguardo, alcune considerazioni incontrovertibili. Bisogna cominciare da lontano: dopo la prima guerra mondiale, che aveva disgregato l’impero ottomano, le cosiddette Grandi Potenze ridisegnarono a loro piacimento, con sprezzante cinismo, la carta geopolitica dell’area. Con tutta la violenza dell’ideologia colonialista, considerarono primitivi e indegni di piena libertà i popoli arabi: imposero loro monarchi feudali o regimi corrotti, servili nei confronti di Londra e di Parigi.

Fu in quel tempo che si cominciò a progettare, su pressione del movimento sionista, dei suoi amici altolocati e della vergogna dei pogrom europei, uno stato ebraico da erigere nelle antiche terre dei Patriarchi e dei Profeti. Subito dopo la seconda guerra mondiale, il progetto fu tradotto in realtà. Fu la realizzazione di un sogno per gli ebrei, ma una terribile sciagura per gli arabi che abitavano da secoli la Palestina. Su di loro si abbatté come un maglio la cattiva coscienza dell’Europa e degli Stati Uniti per non avere efficacemente impedito il genocidio ebraico: il nuovo stato fu insediato non già in una regione semi-deserta (“Una terra senza popolo per un popolo senza terra”) come sosteneva la propaganda sionista, ma in una zona popolosa, in cui esistevano condizioni di vita superiori a quelle di certi “cantoni neri” europei. Grandi masse di arabi furono costrette all’esodo dalle terre in cui erano nate, erano nati i loro padri e i padri dei padri dei padri. Per affrettare la fondazione del nuovo Israele, alla crescente opposizione palestinese si contrappose un feroce terrorismo sionista: la strage della popolazione del villaggio di Deir Yazzin (trucidati 250 uomini, donne, vecchi e bambini), la distruzione di un’ala dell’hotel King David, a Gerusalemme (91 morti), l’assassinio del mediatore delle Nazioni Unite, Folke Bernadotte… Non pochi degli autori di questi atti di terrorismo entrarono poi a far parte dei governi del nuovo Stato. Che io ricordi, non vi furono efficaci censure morali da parte dei politici o dei mass-media occidentali. Sembrò allora a molti (anche a me, debbo dire) che questi “partigiani” riscattassero con l’ardimento di molte loro imprese l’inerme rassegnazione con la quale milioni di ebrei europei erano andati al macello nei lager. E sembrò a moltissimi (e sembra ancora) che l’incomparabile gravità della Shoah concedesse ai superstiti una specie di salvacondotto che permettesse loro qualunque crudeltà. Questa legittimazione alla violenza venne sostenuta con enorme efficacia dai mass-media vicini alla (o posseduti dalla) ricca diaspora ebraica negli Stati Uniti: ricordo ancora con quanta emozione vidi film come “Exodus” di Preminger, lessi romanzi come “Ladri nella notte” di Koestler. Anche a me, come a moltissimi cittadini dell’Occidente, la fondazione dello stato di Israele, la guerra del 1948 apparvero l’ultima grande epopea del XX secolo. 

A questa “copertura” mediatica non potevano certo rispondere i palestinesi: alcuni “contenuti” in stati non loro (come la Giordania), altri divenuti profughi di precaria sopravvivenza, altri ancora rimasti minoranza priva di qualunque potere politico nel nuovo stato ebraico. Così, quasi per una reazione spontanea, l’opinione pubblica occidentale introiettò la convinzione, tipicamente razzista, che il nuovo Stato ( non pochi cittadini del quale e molti sostenitori all’estero appartenevano – o erano collegati - all’intellighentzia occidentale), fosse un caposaldo della civiltà “bianca” nel Medio Oriente, di fronte a un nazionalismo arabo straccione e feudale. 

Le guerre dei regimi arabi contro lo Stato ebraico rinforzarono questa supremazia mediatica: i farneticanti proclami del loro odio, la loro incapacità di promuovere l’idea di uno stato pluralista e laico anziché di due stati creati con drammatici spostamenti della popolazione locale, rinsaldarono nell’opinione pubblica internazionale l’immagine di un piccolo Israele permanentemente minacciato da una enorme valanga di nemici e dunque costretto a un duro esercizio della forza. Ben pochi si accorsero, nel passare degli anni, che questa immagine era sempre meno autentica perché non teneva conto dei crescenti aiuti e garanzie prestati dagli Stati Uniti allo stato ebraico, tali da creare ormai una realtà inattaccabile dai suoi vicini: uno stato che possiede il quinto esercito della Terra per potenza di fuoco e un rilevante armamento nucleare Chi ha indicato questa evidente realtà, sostenendo che, ormai garantita la sicurezza di Israele, era giunto il momento di chiedergli un maggiore e sincero assenso a una pace che garantisse giustizia ai palestinesi, è stato sempre messo a tacere con l’accusa di antiebraismo: vorresti forse una nuova Shoah? Tre generazioni di israeliani si sono ormai succedute dalla fondazione del nuovo Stato, accade persino che i nonagenari scampati al genocidio lamentino che il “loro” governo lesini aiuti alla loro vecchiaia, la caratteristica di Israele come “stato-rifugio” per gli ebrei in diaspora è ormai una romantica illusione, ma l’accusa di antigiudaismo viene ancora rivolta a chi critica i governanti di Israele. Qualche volta l’accusa è di “antisemitismo”: i filo-israeliani meno colti non sanno neppure che anche i palestinesi sono semiti.

Le sconfitte arabe hanno consegnato a Israele, di fatto, l’intera area destinata, secondo gli illusori progetti dell’ONU, a uno stato palestinese. Questo avvenimento epocale ha stravolto gli stessi fondamenti ideali dello stato ebraico. Nella sua dichiarazione di Indipendenza stava scritto: “Lo Stato di Israele si dedicherà allo sviluppo di questo paese per il bene di tutti i suoi cittadini; sarà fondato sui principi di libertà, giustizia e pace, e sarà guidato dalla visione dei profeti di Israele; garantirà pieni e eguali diritti, sociali e politici, a tutti i suoi cittadini, indipendentemente dalle differenze di religione, di razza o di sesso; tutelerà la libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura”. Di fatto, invece, Israele, quasi sospinta da un vento malvagio, si è trasformata in una potenza brutalmente coloniale che opprime con continue violazioni dei diritti umani un popolo in crescente disperazione. Centinaia di risoluzioni dell’ONU contro questi eccessi sono finiti nei cestini della carta straccia premurosamente forniti dagli Stati Uniti, grazie al loro potere di veto. Hanno vita durissima i pacifisti israeliani, coraggiosi, creativi, incessanti costruttori di ponti fra i due popoli che il cinismo dei governanti distrugge demolendo ogni speranza di pace. Nello stato ebraico sono presenti, distruttivamente, forze politiche che sognano di costringere gli arabi a un esodo definitivo dalla loro terra, altre, più numerose, che premono per la costruzione di un regime permanente di apartheid affidato all’esercito perché lo indurisca di quando in quando affinché i palestinesi “non creino problemi “, altre ancora disponibili alla creazione di uno stato arabo ma a pelle di leopardo: bantustan collegati fra loro da esili corridoi. Queste forze eversive si sono sempre schierate (esplicitamente o sotterraneamente) contro ogni piano di pace. Certamente, al riguardo, non mancano responsabilità palestinesi. Vergognosamente traditi dai paesi arabi, condizionati da una frammentazione della loro dirigenza politica, continuamente provocati dall’esercito israeliano, gli abitanti dei territori  occupati hanno commesso anche loro profondi errori di valutazione e di azione.
Quarant’anni di dominio militare con l’uso di punizioni collettive (le case abbattute, i blocchi stradali che per giorni e giorni isolano villaggi e città, impedendo il transito persino alle autoambulanze), la diffusione dell’uso della tortura, l’imprigionamento di ragazzi, la chiusura delle scuole, la devastazione degli uliveti, l’erezione di un muro che taglia paesi e li separa dai campi, il sequestro di terre per i villaggi dei coloni armati, hanno avvelenato l’anima dei due popoli.

Da un lato (quello palestinese) la ferocia di un terrorismo che per essere segno di disperazione non è meno criminale, oppure una rassegnazione che spinge all’inerzia, la corruzione di buona parte della dirigenza politica, un crescente fondamentalismo religioso. Dall’altro lato (quello israeliano) l’uso della paura e dei raid come strumento elettorale, una cultura violentemente razzista e nazionalista, la convinzione che gli arabi siano del tutto inaffidabili e persone senza dignità. I grandi scrittori di Israele (gli Yehoshua, i Grossman, gli Oz….) registrano con dolore questo scadimento etico, che si estende al trattamento dei cittadini arabo-israeliani. Spesso il comportamento delle truppe di occupazione è tanto crudele che quando, ai tempi della prima Intifada, Yitzchak Rabin suggerì ai soldati di non sparare contro i ragazzi palestinesi che lanciavano pietre ma di spaccare loro le braccia, egli fu considerato una “colomba”, un buono e persino un “molle”.
Gli psicologi israeliani denunziano l’insorgenza di nevrosi collettive. Vi sono segni di insensibilità crescente. Eccone uno, di oggi: “Piombo fuso” è un giocattolo donato ai bambini israeliani nella recente festa di Hanukkah. I generali hanno dato questo nome (Operazione Piombo fuso) ai piani dell’offensiva contro Gaza. I generali sanno bene che metà della popolazione di Gaza ha meno di 15 anni… E sanno che Gaza e la Striscia, con 2500 persone per chilometro quadrato, sono la più popolosa area della Terra. Bombardarla dal cielo e dal mare, come si sta facendo, o invaderla per combattere casa per casa significa mettere in atto un macello che ricorda certe imprese naziste.
Scrivo queste cose non per esecrare il popolo di Israele, al quale auguro invece di tutto cuore di diventare propulsore di pace e di benessere, ma perché sono convinto che molti non le sappiano, e che, invece, la diffusione della verità sia la strada necessaria alla giustizia. Ma interessa la verità ai mass-media italiani? Voglio raccontare un episodio al riguardo. Nel 1991 ero presidente del Comitato della Camera per i diritti umani. L’agenzia dell’ONU per i profughi mi invitò a portare una delegazione di parlamentari in visita ai campi in cui si accalcavano decine di migliaia di palestinesi. Fu un’esperienza drammatica: vedemmo un popolo che ci sembrò allo stremo, angariato da anni in mille modi, portato al furore da una congerie di leggi, decreti, bandi militari che ne impedivano ogni crescita e libertà. Ricordo come questa mancanza di diritto fosse evidente a Gaza, immensa metropoli di poverissima gente. Gli occupanti vi applicavano leggi israeliane, egiziane e persino del mandato britannico… Tornati a Roma presentammo la nostra relazione al presidente della Commissione Esteri, Flaminio Piccoli. Egli rilevò che nonostante la diversità politica (la delegazione “andava” da Democrazia Proletaria al MSI), il documento era unitario e la documentazione era importante. Decise di convocare una conferenza stampa. I giornalisti accreditati a Montecitorio sono più di 300. Non uno (non uno, avete capito bene) venne ad ascoltarci.
Milioni e milioni di italiani (la grande maggioranza) hanno come esclusiva fonte di informazione il TG1. Da anni questa testata affida il notiziario sull’area medio-orientale a un giornalista, Claudio Pagliara, che è certamente assai meno obiettivo deii giornalisti israeliani. Per esempio, continua a ripetere che l’offensiva israeliana è dovuta israeliana al fatto che Hamas aveva rotto la tregua stabilita con Israele. In realtà Hamas ha deciso di non rinnovare la tregua scaduta, motivando questa decisione con l’inasprimento del blocco alla Striscia e il bombardamento del 4 novembre, che ha causato la morte di 6 miliziani. In questo modo – ha scritto la stampa israeliana - si è “innescato un nuovo ciclo di pericolosa, anche se controllata, violenza, caratterizzata da occasionali colpi ed incursioni da parte di Israele e da corrispondenti lanci di razzi e spari da parte palestinese” (Daniel Levy, Haaretz, 19 dicembre”).
Tzahal, l’esercito israeliano, non consente ai giornalisti di entrare nella Striscia e dunque le notizie che ci arrivano dai luoghi della battaglia sono tutto fuorché obiettive; ad aumentare questo squilibrio, il giornalista del TG1 è prodigo di servizi sui danni che i razzi di Hamas procurano ad alcune città israeliane. Ora questi lanci sono un’iniziativa criminale ma non sono, purtroppo, una prerogativa di Hamas. Pagliara ha sempre taciuto che da anni – e anche durante i tentativi di trattative di pace – Tzahal lancia missili sui territori occupati, dichiarando che si tratta di “esecuzioni a distanza” di supposti criminali. Questi missili hanno provocato ormai centinaia e centinaia di “danni collaterali” palestinesi. I missili sono intrinsecamente diversi dai razzi?
Tanto meno il giornalista italiano ha espresso i dubbi dei suoi colleghi israeliani sulle reali ragioni dell’attacco a Gaza. Per esempio: "Fonti dell'establishment della Difesa hanno dichiarato che il ministro della difesa Ehud Barak ha ordinato alle Forze Aeree Israeliane di prepararsi per l'operazione più di sei mesi fa, anche mentre Israele iniziava a negoziare un accordo per il cessate il fuoco con Hamas". (Barak Ravid, Operation "Cast Lead": Israeli Air Force strike followed months of planning, Haaretz, 27 dicembre 2008).
Infine l’inviato del TG1 non si è mai dilungato sulle sofferenze inflitte alla popolazione di Gaza dall’assedio israeliano sottolineate da altri suoi colleghi: “L’assedio di Gaza ha distrutto per un’intera generazione la possibilità di vivere una vita degna di essere vissuta” (Tom Seghev, Haaretz 29 dicembre 2008); e anche “Mancano l’acqua, l’elettricità, i medicinali e il personale sanitario è spesso costretto alla drammatica scelta di quali feriti curare e quali abbandonare a se stessi, (New York Times, 1 gennaio 2009).
Concludo questo tragico cammino per le strade insanguinate della Palestina e di Israele facendo mie le parole con le quali Pietro Ingrao ha commentato la strage in atto a Gaza: “Sono convinto che non è con quella violenza iniqua che Israele può tutelare il suo domani. Anzi credo, temo che con questa aggressione infausta essa seminerà nuovo alimento per gli estremisti disperati di Hamas”. Nel 1991 io credetti di vedere nascere nei campi profughi una nuova leva di kamikaze. Ricordo gli occhi di un quindicenne a Deishah mentre mi raccontava del pianto disperato di una sua sorellina quando, a un chek-point un soldato le aveva sventrato una bambola, convinto che in essa si celasse dell’esplosivo. A Gaza ci sono più di 750 mila bambini. Ricordo con il cuore che piange gli aquiloni che essi levavano in mezzo al fango dell’inverno in cui li vidi e che mi sembrarono speranze levate verso il cielo. Quanto odio sta fermentando nel cuore di quei piccini, accanto alla paura? Non solo le lacrime degli orfani ma anche il rancore muto, e forse ancor più desolato, degli orfani “psicologici”: quelli che si sentono traditi da un padre che sembra non sapere, non volere difenderli, lui stesso terrorizzato, affamato. Che ricco raccolto per gli estremisti, per la violenza del loro odio che a un bambino può sembrare forza. I sedicenti amici di Israele non lo capiscono?
 La pace è una bambina che corre verso un rifugio in cui sentirsi finalmente al sicuro. Palestinese o israeliana, che importa? Il suo grido dovrebbe strapparci alla nostra inerzia, che forse non è tale ma disperata sensazione di inutilità. Ma non dobbiamo cedere al pessimismo della ragione. Come cittadini, come cristiani (quelli di noi che osano dirsi tali) dobbiamo trovare modi per far sentire ai nostri governanti che la loro prudenza ci sembra viltà. Nella triste decadenza dei partiti la nostra solidarietà deve trovare nuove forme. Internet ne offre e non dobbiamo ritenerle troppo piccole, troppo deboli. Tra il poco e il nulla c’è un abisso. 

Chiamiamo le cose col loro nome: se terrorismo è il massacro indiscriminato (tentato o eseguito) di civili, terroristi sono i missili Qassam che Hamas lancia sulle città di Israele; e terroristi sono i bombardamenti israeliani su Gaza. Ma su scala 1000 volte maggiore. Col terrorismo Hamas esprime la sua aspirazione a eliminare Israele, e, stando alla sua Carta, gli ebrei in quanto tali. Col terrorismo Israele pratica una sanguinosa punizione di massa sulla popolazione di Gaza perché genericamente implicata con Hamas. E che cosa chiamiamo aggressione? I missili Qassam, certo.
Ma il blocco soffocante di Gaza non era già un’aggressione? Nel 1967 Israele chiamò giustamente aggressioneAi diplomatici Benedetto XVI ha detto che per vincere “l’inaudita violenza” dell’attacco a Gaza è forse necessario un ricambio generazionale dei governi, dunque un grande coraggio. Io ricordo quello di Paolo Vi che, per riportare lo sguardo della Chiesa sul mistero del Cristo, non si lasciò fermare dalla situazione militare della Terra Santa, ma sfidò la prudenza dei diplomatici annunziando con semplicità che lui sarebbe comunque partito. Davanti a lui, almeno per qualche ora, si aprì una meravigliosa strada che io ricordo di avere percorso con Eugenio Montale: era un viottolo che zigzagava fra crateri di bombe nella no men’s land, la terra di nessuno fra la Gerusalemme della Legione Araba e quella di Tzahal. Per qualche ora la Città Santa tornò una, la Bella dei Profeti, del Vangelo e del Corano.
E però noi non possiamo richiedere coraggio soltanto ai governanti. Decine di riservisti israeliani in questo momento si stanno trasformando in refuznik, obiettori di coscienza, che per questo saranno incarcerati. Non vogliamo assomigliargli almeno un poco? Davvero ci terrorizza la probabilità di essere definiti “amici di Hamas”?

Ettore Masina

 

Qualche cosa da dire su Gaza di

Stefano Levi Della Torre   - 19/1/2009

Noi che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, che cosa comprendiamo di Gaza o di Sderot ? Forse poco. Certamente vi siamo implicati. Da Israele si vede Hamas non come una realtà palestinese circoscritta, ma come punta di una forza aggressiva enormemente più vasta, crescente, la destra sociale islamica di massa che può destabilizzare gli stessi regimi arabi; si vede Hamas in alleanza con l’Iran, che è sulla via di diventare potenza nucleare e il cui governo promette la distruzione di Israele. Minacce reali, non immaginarie, e non solo per Israele. Dalle nostre rive la scena appare diversa: una potenza militare, Israele, sta schiacciando un popolo che essa stessa opprime. Visione reale, non immaginaria. Da queste due visioni, entrambe vere, dobbiamo trarre le nostre considerazioni. Le mie, che seguono, sono certo viziate dal privilegio in cui mi trovo a scrivere, lontano dal sangue e dalla paura. il blocco degli stretti di Tiran fatto da Nasser, e reagì con la guerra dei sei giorni. Dal blocco di Gaza, che già in sé ha creato emergenze umanitarie, ora si è passati alla guerra. Ma è guerra? Non ci sono due eserciti in campo, ma un esercito da una parte e gruppi fondamentalisti e terroristici immersi in una popolazione che si dice la più densa del mondo. Esiste una fattispecie giuridica che si chiama "abuso di legittima difesa". Se Israele ha diritto morale a una legittima difesa, che ne è dell’abuso? L’ abuso è questo intollerabile massacro. Ci sono i morti. E i feriti? A migliaia, persone distrutte, senza gambe, senza braccia, sventrate, spezzate nell’anima, spesso in cancrena per mancanza di medicine, di medici , di acqua, di corrente elettrica, di cibo, già a causa dell’embargo, poi della distruzione. Che cosa vale tutto questo? Si dice , spesso a ragione, che i terroristi si fanno scudo dei civili. Dunque i civili sono ostaggi. Si massacrano gli ostaggi? La pratica degli scudi umani è ignobile perché espone cinicamente degli esseri umani al sacrificio, ma perché sarebbe meno ignobile l’azione di chi quel sacrificio lo compie sparando comunque? O forse la convivenza della popolazione con Hamas è intesa di per sé come connivenza, nell’idea aberrante di una "colpa collettiva" a giustificazione del massacro. Ma non è questa un’idea esattamente simmetrica a quella dei terroristi contro cui si combatte, non solo per necessità ma anche in nome dei "nostri principi superiori"? Il numero di morti e feriti ci dice cose che già sappiamo: non esistono bombe intelligenti o selettive. O se esistono, dovremmo pensare che uno degli eserciti più addestrati del mondo non sia tecnicamente capace di usarle, o che sia troppo indifferente agli eufemistici "effetti collaterali", o che il massacro faccia parte della strategia. Quale strategia? C’è un primo obiettivo dichiarato: far cessare l’aggressione dei missili Kassam. Giusto? Giusto. C’è un secondo obiettivo: spazzare via Hamas. Hamas è un nemico. Ma un nemico non solo militare ma soprattutto politico. I Palestinesi l’hanno votato in massa in polemica con la corruzione di Fatah e di fronte alla continua frustrazione di obiettivi politici ragionevoli, di risultati positivi, di fronte alla continua umiliazione subita ai check points e sotto occupazione. La presa di Hamas sui palestinesi è prima di tutto responsabilità dei palestinesi, e in particolare di Fatah e della corruzione con cui ha rapinato ingenti aiuti internazionali, stornandoli da investimenti produttivi e civili. Ma a quella frustrazione e umiliazione, che hanno favorito Hamas, la politica di Israele ha tenacemente contribuito, con l’espansione degli insediamenti, con la durezza vessatoria dei check points e dell’occupazione dei territori, con l’esproprio di terre e la distruzione delle coltivazioni, con il blocco che ha affamato Gaza, con il nulla di fatto diplomatico. Tutto ciò ha favorito la presa di  Hamas sui palestinesi. E’ un caso, un "effetto collaterale"? O l’oltranzismo di Hamas è utile a tutti coloro, tra i palestinesi e tra gli israeliani, che non vogliono compromessi ma solo vincere in cielo, in terra e in mare; che si valgono dell’oltranzismo altrui per poter dire "non ci sono alternative", che pongono la questione non in termini di trattativa per una convivenza, ma di vittoria definitiva e totale degli uni sugli altri? Il terzo obiettivo è di spezzare la convivenza della popolazione con Hamas, mostrandone l’enorme prezzo in vite umane, in distruzione e macerie. I volantini in arabo lanciati dall’esercito israeliano sulla striscia di Gaza dicevano: "denunciate gli esponenti di Hamas", che è come dire: fatevi ammazzare da loro, così non avremo bisogno di farlo noi. Tramutate il nostro assalto in guerra civile tra voi. Tramutatevi in nostri collaboratori in una vostra guerra civile. Ma i collaboratori palestinesi di un’ aggressione israeliana ai palestinesi hanno forse qualche prospettiva politica o di vita tra i palestinesi? Basta mettersi nei panni di un palestinese nemico di Hamas per vedere come il dilemma proposto sia insostenibile. O sia un alibi per poter dire: una via di uscita gliel’abbiamo offerta. Può darsi che una guerra civile tra i palestinesi sia necessaria. Non ne sono mancati i sintomi. Ma essa può avere senso solo di fronte a una prospettiva positiva. A che prospettiva positiva sta contribuendo Israele col massacro di Gaza, l’inerzia diplomatica e l’incessante espansione di insediamenti sui territori occupati? Dal 2001, dai negoziati di pace a Camp David e Taba, falliti soprattutto per il rifiuto di Arafat, i governi di Israele non si sono più pronunciati chiaramente. Quando Israele tornerà a presentare, magari unilateralmente ma in cerca di interlocutori, una proposta sostenibile per la soluzione del conflitto? Dagli accordi di Ginevra del 2003 al piano Nusseibeh-Ayalon, esponenti israeliani e palestinesi hanno già formulato soluzioni, ma lasciate sulla carta da entrambe le parti ufficiali. Da parte sua Hamas, per affermare se stessa con i Qassam, ha voluto esporre la popolazione palestinese ad una risposta israeliana inevitabile, ha voluto tagliare la strada ai movimenti per la pace e i diritti in Israele e in Palestina. Si dice: l’ideologia di Hamas ha i toni del nazismo, e col nazismo non si tratta. Ma se Hitler fosse stato un lanciatore di missili invece che il capo di un’enorme potenza industrial-militare, coi tedeschi si sarebbe potuto e dovuto trattare, mettendo in difficoltà politica i lanciatori di missili, piegando anch’essi alla trattativa o riducendo la loro influenza politica. Sempre che si voglia davvero negoziare. Hamas non è un’enorme potenza industrial- militare. Per l’esistenza stessa di Israele il pericolo maggiore non viene da Hamas, ma dall’Iran che si arma di atomica e che sostiene Hamas e la rifornisce. Si può pensare che l’enormità del massacro di Gaza voglia anche essere un avvertimento preventivo all’Iran: contro chi ci attacca, siamo capaci di questo e di peggio. Il massacro di Gaza vuol essere anche un esperimento dimostrativo? Che un Paese debba reagire anche con la forza a migliaia di missili sulle sue città è logico, anzi doveroso. E’ un parere comune che il passaggio tra Bush e Obama alla presidenza USA e soprattutto l’imminenza delle elezioni in Israele abbia determinato i tempi dell’attacco a Gaza. Un governo non può sostenere la prova elettorale se non ha reagito a un attacco sulle sue città. Israele vanta giustamente la sua democrazia e la democrazia si basa sul consenso.

Ma quando il consenso interno è guadagnato al prezzo di un massacro esterno si pone un problema per la democrazia. L’idea che la vita dei "nostri" valga mille volte di più della vita degli "altri", è un’idea che abbiamo già visto all’opera, che sappiamo portare molto lontano nella barbarie. Così, la decisione etnica di maggioranza che vuole escludere dalla competizione elettorale i partiti arabi israeliani, già rappresentati alla Knesset.  Sono sintomi gravissimi di una degenerazione morale, frutto di una situazione che non si riesce o non si vuole risolvere. I palestinesi che danzavano di gioia alla notizia del crollo delle "Torri Gemelle" l’11 settembre 2001 sono molto diversi da quei religiosi che danzano di gioia al vedere il fumo dei bombardamenti sotto cui stanno morendo centinaia di abitanti della Striscia? (Forse non ricordano, questi sapienti e pii, il racconto talmudico in cui gli angeli festeggiano perché i soldati di Faraone che inseguono Mosè e il suo popolo stanno morendo sommersi dalle acque, e Dio li riprende con asprezza: "muoiono le mie creature, e voi festeggiate ?"). E quei palestinesi che rendono omaggio ai martiri "kamikaze", sono molto diversi da quegli israeliani di cui si tollera tuttora l’omaggio a Goldstein, che "si sacrificò" nel 1994, pur di uccidere a colpi di Kalashnikov più di due decine di palestinesi in  preghiera in una moschea di Hebron? Fortunatamente, in Israele il dibattito è libero e aperto, a differenza che sotto il regime di Hamas,. Ma quando la Ministra degli Esteri di Israele nega che ci sia un’emergenza umanitaria nella striscia, ci si può preoccupare di quanto ci si possa ancora spingere nella violenza prima di riconoscervi un’ "emergenza umanitaria".  Colpire Hamas attraverso il massacro può darsi la indebolisca o la distrugga. Ma è molto più probabile il contrario. Basta che appena sopravviva, e, come forza che ha combattuto l’invasione della propria terra, avrà vinto in guerra, nella politica e nel cuore dei palestinesi e di milioni di persone nel mondo. L’ideologia reazionaria di Hamas parrà un  modello di riscatto e di resistenza. L’aggressione israeliana a Gaza non rafforza gli avversari palestinesi di Hamas, ossia la parte ancora disponibile alla trattativa. L’autorità di un Abu Mazen, o di chi per lui, sarà rafforzata o al contrario compromessa, se apparirà profittatrice politica del massacro israeliano di Gaza? La prospettiva mi sembra quella di una disastrosa vittoria militare di Israele. Disastrosa per Israele, perché lo lascerà unico arbitro di una situazione composta di due nazioni reciprocamente sempre più ostili; disastrosa per i palestinesi, perché avrà sostanzialmente azzerato tutte le loro  rappresentanze politiche. Per molto tempo non ci saranno più interlocutori autorevoli, e Israele sarà responsabile di fronte al mondo del destino di due popoli incompatibili, uno dominante e l’altro dominato e ulteriormente ferito per generazioni. Moralmente e politicamente insostenibile. Appoggiare contro Hamas la parte disponibile alla trattativa avrebbe voluto dire trattare e fare concessioni vistose e sostanziali: trattare, ossia riconoscere la piena dignità dell’interlocutore; fare concessioni, ossia confermare l’efficacia dell’interlocutore nel fare l’interesse del suo popolo. Questo i governi israeliani non l’hanno fatto. Più spesso hanno fatto il contrario. Quando Sharon evacuò le colonie ebraiche di Gaza aprì una prospettiva coraggiosa e positiva; ma lo fece unilateralmente, non volle riconoscere l’autorità della controparte palestinese, trattando con essa e responsabilizzandola nella questione, non volle concederle di presentare l’evacuazione delle colonie ebraiche di Gaza come un proprio successo diplomatico. Ciò lasciò spazio a Hamas per poter vantare quella ritirata come effetto della propria pressione militare. La scelta unilaterale di Sharon indebolì Abu Mazen e rafforzò Hamas: parve dimostrare l’inconsistenza della diplomazia e l’efficacia delle armi. Ciò incoraggiò Hamas ad attaccare Israele a sud, incoraggiò gli Hezbollah del Libano ad attaccare da nord. Israele ha reagito e ne sono seguiti due massacri: in Libano nel 2006, a Gaza in questi giorni. L’unilateralismo ha portato Bush al disastro irakeno e a un declino dell’autorevolezza americana , l’unilateralismo sta portando Israele a un disastro morale e politico. Bush e i Neo-con hanno frainteso la fine dell’antagonista sovietico e del mondo bipolare, diviso tra le due super potenze, come affermazione della propria potenza unica e unilaterale, mentre all’opposto il mondo diventava multipolare, si moltiplicavano i soggetti politici globali (Cina, India, Unione Europea..). Ma Israele si aggrappa alla tesi unilateralista travolta dalla globalizzazione, dall’assetto multipolare del mondo: solo noi decidiamo di noi stessi, della nostra sopravvivenza, con l’appoggio degli USA. Un’inveterata diffidenza nei confronti del mondo nutre questo atteggiamento. Ma è un atteggiamento residuale: l’unilateralismo non regge all’assetto multipolare del mondo. Certo non è solo colpa di Israele la debolezza o l’inaffidabilità dei suoi interlocutori. L’ostilità che lo circonda non è solo rivolta alla sua politica, ma alla sua stessa esistenza. La mobilitazione reazionaria di massa nei Paesi islamici e nell’immigrazione dai Paesi islamici in Europa ha motivazioni interne e globali, non dipende solo dall’esistenza di Israele o dalla politica dei suoi governi. Ma quando per la prima volta la Lega Araba, a Beirut nel 2002, propose "la pace in cambio dei territori", perché Israele non mise alla prova quella proposta e la lasciò cadere in dimenticanza? Ciò che colpisce è la singolare inerzia diplomatica di Israele, che sembra lasciar cadere ogni occasione e differirla. Non sa decidere se convivere o vincere, se definire i confini del suo piccolo spazio o riplasmarli senza fine per qualche chilometro quadrato in più. Questa indecisione porta a un’unica decisione, la guerra. La guerra è la prosecuzione di una non-politica  con altri mezzi. Ma è una indecisione? L’inerzia diplomatica e l’espansione degli insediamenti nei territori occupati sono una decisione di fatto. Scrive Zvì Bar’el su "Haarez" che i rapporti già buoni con Turchia, Giordania e Qatar si stanno rovesciando. "Chi ha tratto vantaggio, finora , dalla situazione? E’ stata Hamas, che può vantare di aver compromesso gravemente i rapporti di Israele con la Turchia, la Giordania e il Qatar". E’ l’esito della sindrome unilateralista di Israele, che ispira la sua indifferenza alle delibere dell’Onu, alle alleanze possibili, alla trattativa, e il suo rifiuto di principio (tranne in Libano) di un cordone  internazionale a garanzia della sicurezza dei due popoli. Eppure i sionisti fondatori di Israele furono dei grandi diplomatici, non lasciarono cadere alcuna occasione, curarono ogni alleanza possibile, ogni possibile interlocutore sul piano internazionale. Al contrario dei loro successori attuali, non furono unilaterlisti e realizzarono ciò che pareva irrealizzabile. Curarono anche il proprio "buon nome", perché un buon nome è anche una buona politica. "Rabbi Shimon diceva: ci sono tre corone: la corona della Torà, la corona del sacerdozio, la corona del regno; ma su tutte eccelle la corona del buon nome" (Mishnà Avoth 4, 17): c’è il prestigio della sapienza, della religione e della politica. Ma quello che più vale è il prestigio della degnità degli atti.